EL BOCAL
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“El bocal”. In italiano “pitale”. L’oggetto innominabile per eccellenza. Quasi fosse un’onta averlo posseduto e magari pure utilizzato. Eppure c’era, esisteva e spesso la sua presenza si rivelava fondamentale soprattutto nelle lunghe e gelide notti d’inverno. C’era freddo di notte nelle case di montagna. E non era un freddo “de meseria”. Era freddo perché era normale che in alcune zone della casa facesse freddo. Non c’erano né metano né GPL, e tantomeno il gasolio. Niente termosifoni e riscaldamenti a pavimento che schiacci i tasti del termostato e giri per casa in maniche corte a gennaio. C’erano il fornel e la “cosina economica” che riscaldavano per bene la cucina e la “stua”. E spesso anche la stanza dei nonni che si trovava nei paraggi, in una posizione apparentemente illogica dell’abitazione ma che in realtà era funzionale proprio al dormire “un pò” al caldo. Perché, ovviamente, di notte non c’era nessuno che buttava legna “inte cosina”, ed allora il caldo, man mano che la notte avanzava, si trasformava in “en cin manco caldo”. Che, secondo i parametri attuali, sarebbe “dormì al fret”. E poi le case mica erano “I-tech” come quelle moderne: non esisteva il “vetrocamera”, non c’erano cappotti ed altre diavolerie isolanti e i tetti erano “de tavele” e non costruiti con ventisette strati di materiali misteriosi ed efficienti. E poi il bagno, ovviamente non riscaldato. Provaci ad andare in bagno in pieno dicembre! Dovendo uscire malvolentieri da sotto il soffocante piumone e spesso essendo obbligato a scendere una rampa di scale. Lasciando il letto dove, fra bollenti boule di ferro e termocoperte con la presa di corrente con i fili scoperti, eri riuscito a disporre di un calore accettabile delle lenzuola, tentando poi di raggiungere eroicamente il bagno rischiando una broncopolmonite pressoché certa. O ti tenevi la pisciata fino al mattino, che non è cosa facile, oppure usufruivi dell’arma segreta nascosta sotto il letto oppure “nel lateral”. Così entrava in scena l’amico “bocal”. In italiano pitale. L’oggetto che rendeva meno drammatica la minzione notturna. Quelli un pò più moderni erano di plastica, spesso bianchi e a volte rosa, dotati di un comodo manico. I più classici, invece, erano di proprietà esclusiva dei nonni ed erano in ferro smaltato con il bordino superiore dipinto di blu ed anch’essi dotati di manico. Ed il suono che produceva la pisciata nel “bocal” metallico era una sorta di musica: un “triiiiiiiiiiinnnnnnnn” inizialmente acuto che, man mano che il livello di urina aumentava all’interno del “bocal”, scendeva di tonalità fino a raggiungere le note più basse del pentagramma. Il “bocal” di volgare plastica invece produceva un suono più cupo, piuttosto anonimo e scarso di armonici. Poi, dopo aver urinato in fretta, era un piacere ritornare di corsa sotto il pesante piumone, in quel letto dove dovevi necessariamente dormire come una mummia egizia, facendo bene attenzione a non muovere incautamente nessun arto. Il caldo, infatti, era presente solo nell’area occupata dalla sagoma corporea. Spostare un piede, ad esempio, significava rischiare il congelamento dell’estremità. Al mattino il “bocal” ritornava in scena perché occorreva svuotarlo evitando così pericolose asfissie. Era interessante analizzare le varie urine, quasi una sorta di pre-test “dei esami”. Schiumose e dense, di un colore giallo cupo quelle degli anziani, odoranti di medicinali “dela presion e del diabete”. Limpide e pure, di un bel colore giallo vivo, quelle dei bambini. Si narra che qualcuno svuotasse il “bocal” direttamente dalla finestra. Io, che il “bocal” l’ho conosciuto e pure usato parecchio, lo vuotavo più elegantemente nel water. Oggi il “bocal” non credo esista nemmeno più ed i giovani forse ne avranno sentito vagamente parlare. Eppure è esistito, c’era e guai se non ci fosse stato questo fidato amico di tante notti di freddo e stelle sopra il Pelsa. “El bocal”: un ricordo posto ai margini dei ricordi. O forse, citando Guccini “soltanto un’impressione che ricorderemo appena”.