IL PRIMO FIENO
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La partenza per la Svizzera era fissata per i primi di marzo. La valigia pronta da qualche giorno e fuori la neve che ricopriva i prati e le montagne. Partiva all’alba quando i camini avevano appena iniziato a fumare: la corriera fino a Belluno e poi il treno che fermava a Chiasso per poi inoltrarsi attraverso la Svizzera approdando infine a Frenkendorf. L’arrivo della primavera l’avrebbe vissuto in terra straniera: dai solai del grande palazzo in costruzione avrebbe osservato il fiorire dei tigli lungo la strada e lo spuntare dei primi fiori nelle aiuole dei giardini pubblici. Sarebbe stato lavoro in cantiere dal lunedì al sabato: e la domenica a tirare il fiato concedendosi una meritata birra. Al paese, invece, moglie e figli avrebbero atteso ancora per un pò lo sciogliersi di quella neve ghiacciata che ancora ricopriva i campi. Giorni lenti da far passare, buttando “legne inte cosina”, vivendo qualche “sburia d’aoril” e assistendo al fiorire delle “zaresere” e all’inverdire dei larici. Poi, fra un “menà grasa ‘nte ciamp, somenà le patate e tuti chi altri lavori da fa” sarebbe terminata pure la primavera lasciando spazio alle lunghe e calde giornate estive. Da una parte all’altra delle Alpi sarebbe stato un impaziente contare i giorni che mancavano al suo breve ritorno al paese. Era partito con la neve che ricopriva il Pelsa: e ritornava con le “levine” ormai sciolte ed il verde cupo dei boschi che circondavano Ghisel e Colaz. Una settimana era il tempo concesso per falciare il grande prato sul monte: quello comprato con enormi sacrifici, quello capace di produrre oltre cento “fas de fen”. Arrivava al paese il primo sabato di luglio, verso sera. Appena sceso dalla corriera prendeva subito il sentiero che saliva sul monte: lassù trovava la moglie che già aveva iniziato a falciare il primo lembo di prato, quello “fora su le zime”. Poi rientravano insieme e nella mezz’ora di cammino parlavano dei figli, del fieno da fare, dei campi da curare e della Svizzera. Un saluto e un piccolo dono ai figli, poi la cena e subito a letto. L’indomani, ancor prima che venisse giorno, era nuovamente sul sentiero che conduceva sul monte. Ancora mezz’ora di cammino stavolta in salita e poi il silenzio del bosco rotto dal frusciare della falce affilata come un rasoio. Il ritmo delle falciate scandiva il tempo di quella calda giornata di luglio che stava nascendo. A volte si fermava per qualche istante ed allora era il sibilare della “prieda” che ravvivava il filo della lama a rompere il grande tacere dell’alba imminente. Si asciugava la fronte e ricominciava il suo solitario lavorare. La moglie e i figli lo raggiungevano a giorno fatto; “restel” in mano negli attimi in cui il sole avrebbe scavalcato il Pelsa illuminando prepotentemente la valle. Da quel momento in poi era operare febbrile con lo sguardo che a volte scrutava il cielo di luglio sperando di non incrociare qualche nuvola “da temporal”. Un pregare silenzioso che non arrivasse la pioggia a ritardare “el secase del fen”. Ogni minuto di quel tempo centellinato era prezioso. Soltanto il suono della campana grande che saliva da fondovalle poteva interrompere il faticoso lavorare. “Pan e formai, en cin de polenta, na bersola e ‘n got de vin” era il semplice pranzo. Poi di nuovo sotto a rasare quel prato che era vita. Il potente sole di luglio seccava in fretta quell’erba profumata e così si poteva iniziare il trasporto dei “fas de fen”. Terminato lo sfalcio iniziava la processione dei viaggi dal bosco al tabià appena costruito di fronte a casa. Un’ora di cammino, mezz’ora all’andata e mezz’ora al ritorno. Ed erano una decina i viaggi che lui riusciva a compiere in una sola giornata. Il vedere il tabià che man mano si riempiva di fieno gli regalava nuova forza per trasportare il carico successivo. Anche la moglie avrebbe contribuito al trasporto, ed insieme, con il prezioso aiuto di un aiutante arruolato per l’occasione, nel tempo restante della sua permanenza al paese, avrebbero trasportato tutti i circa cento “fas de fen”. Al venerdì sera il tabià conteneva tutto il fieno prodotto dal grande prato sul monte ed il lavoro era terminato. Ancora una notte da trascorrere di fronte alla grande montagna: all’indomani sarebbe stato un nuovo salutare moglie e figli e poi nuovamente la corriera fino a Belluno ed il viaggio in treno con fermata a Frenkendorf. Altri tre mesi lontano da casa e poi il ritorno nei giorni in cui si andavano a trovare i morti al cimitero. E finalmente sarebbe stato il tempo del riposo, dei larici colorati d’oro e della prima neve sulle cime.
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