LE SBURIE D’AORIL
AUDIO
Le sapevano leggere le nuvole. Forse addirittura meglio di Bernacca, che pure era bravo con il suo “tempo variabile mari poco mossi e agitati e venti tesi dai quadranti orientali”. Non avevano a disposizione il satellite Meteosat e anemometri e barometri, eppure non sbagliavano quasi mai. Neppure in aprile, il mese bastardo per eccellenza. Capace di essere multistagione, camaleontico e bizzarro. “Voia o no voia a San Marco la foia” recitava l’antico detto. E nemmeno il proverbio sbagliava: entro il venticinque aprile i boschi si coloravano del verde nuovo di primavera. A volte un pò prima, magari già ai primi del mese, più spesso intorno alla metà. L’inverno, ormai, pareva un ricordo da ricordare forse per poco oppure per sempre, dipendeva da quanta neve era caduta, da quanto freddo si era patito e da quanta legna si era consumata. Il clima più gentile, il tepore del mezzogiorno e le giornate che andavano allungandosi, erano quasi una musica che celebrava una sorta di ritorno alla vita di uomini e natura. Un uscire dagli inferi del lungo inverno di montagna. Eppure, in aprile, sentivano che qualcosa sarebbe accaduto. Lo conoscevano quel vento freddo che scendeva dalle cime, sapevano tradurre il linguaggio del cielo. Così accadeva che nel pomeriggio iniziasse a soffiare un vento bastardo come il mese delle nuove gemme. Si agitavano i larici ancora mezzi assopiti nel loro dormiveglia, e pure i “pez” erano inquieti. “Doman lè bon de nevegà”, affermavano con l’aria sicura di chi la sapeva lunga. Ed il mattino dopo, la previsione di chi conosceva bene il mese bastardo, implacabilmente si avverava. Il nuovo giorno si presentava senza montagne all’orizzonte, inghiottite da una nebbia grigia. E fiocchi pesanti, fradici e veloci scendevano a bagnare i prati, i campi “el stradon” e i tetti delle case. Era ritornato l’inverno. Non gelido, ma umido e malinconico. Le “sburie d’aoril” le chiamavano quelle improvvise mutazioni metereologiche proprie del mese bastardo. Era spietato aprile: illudeva con un tempo di quasi estate per poi cedere all’ultimo colpo di coda di un inverno che non voleva mollare. Ed il tempo rallentava come a febbraio e chiamava fuoco nella “cosina”. Poi quella neve strana vinceva la resistenza di quel terreno illuso dalla nuova stagione e “attaccava”. Ora era inverno che non era inverno, con il bianco che copriva il verde brillante dei “lares” e i primi fiori della “zaresera”. Scendeva fitta quella neve affaticata, che stentava ad essere neve. E loro guardavano dalla finestra, con la serenità di chi di ne aveva visti tanti di mesi di aprile. Guardavano e aspettavano l’imminente e definitivo cedere di quell’inverno che si era ripresentato per una mattina appena. Poi i fiocchi si tramutavano in gocce di pioggia e larghe chiazze nere si aprivano su quella neve sfinita che aveva ricoperto i prati. Rivoli d’acqua correvano sull’asfalto della provinciale mentre il cielo si apriva sopra il Mont’Alt. Il tempo di un giro di lancette della pendola e quel bianco effimero era già divenuto ricordo. La “sburia” era terminata, la stagione dei silenzi aveva perso definitivamente la lotta contro la primavera. Si ritirava sconfitta mentre un nuovo e tiepido sole camminava sopra lo Spiz de Medodì. Dopo pranzo i larici sfoggiavano il loro verde gentile, i prati ed i tetti erano ormai asciutti ed il fuoco nella “cosina” andava riducendosi in “bronze”. Sarebbe ritornato ad essere fuoco prima di cena. Perché le sere d’aprile, lassù, erano intrise di fresca dolcezza…Magiche Dolomiti!!