L’ULTIMA VACCA
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La corriera si fermò nel centro del paese. Scese, aspettò che il mezzo ripartisse ed attraversò la strada. Entrò nel primo bar che incontrò ed ordinò un quarto di bianco. Fece due parole di circostanza con la giovane barista dal marcato accento tedesco. Finì il vino, pagò ed uscì. La giornata si prospettava splendida, con un cielo di un azzurro intenso. Nemmeno una nuvola in quel cielo di giugno. Guardò le montagne che il sole iniziava ad illuminare. Erano diverse da quelle che circondavano il paese dove viveva. Si alzavano improvvise da quei prati falciati di fresco. Prati curatissimi, che arrivavano a lambire la roccia dolomitica, creando un contrasto a cui non era abituato. La strada intanto iniziava ad animarsi. I primi turisti dell’estate si preparavano per l’escursione del giorno. Chissà da dove veniva questa gente, si chiedeva. Quanta strada avevano fatto quelle persone per arrivare in quella valle ormai piena di alberghi. Non gli piaceva viaggiare. Muoversi dal suo paese evocava brutti ricordi. La miseria, poi la guerra e l’emigrazione in Svizzera. Però quel giorno era felice. Era contento di essere ritornato nella valle che lo aveva ospitato sessant’anni prima. Non aveva nemmeno dieci anni quando lo mandarono a pascolare le vacche. Per fuggire dalla miseria. Dalla fame. Allora c’erano forse due alberghi, il resto erano stalle e animali. Si trovò bene in quel posto. Coltivò molte amicizie. Continuò anche dopo la guerra a frequentare quella vallata. Soprattutto d’inverno, quando partiva da casa a piedi, carico di manici per badili costruiti da lui. Quaranta km. per due soldi e qualche forma di formaggio. Chiese l’ora ad un passante. A metà mattina aveva un appuntamento importante. L’acquisto dell’ultima vacca. Iniziava a sentire il peso dell’età, e si rendeva conto giorno per giorno che un certo tipo di mondo stava cessando di esistere. In pochi al suo paese tenevano ancora animali. La grande fabbrica di occhiali stava inghiottendo quel povero ma dignitoso mondo agricolo. C’erano lavoro e stipendio ogni mese. Anche i prati non venivano quasi più falciati. Molti giovani erano scesi nei paesi di fondovalle, vicini allo stabilimento. Lassù al paese molti meno camini fumavano durante le lunghe giornate d’inverno. Qualche decina di minuti dopo era davanti al piccolo maso. Il suo amico lo stava aspettando. Si salutarono da lontano, poi si strinsero la mano. Poche parole, come usavano entrambi. Visionarono alcune vacche e la scelta fu quasi immediata. Concordarono il prezzo velocemente. Questa è l’ultima, disse. L’amico lo prese amichevolmente in giro sul fatto che fosse l’ultima, poi si fece serio. Entrambi erano avanti con gli anni. Parlarono per un po’ dei vecchi tempi. Si misero d’accordo sulla data del trasporto dell’animale e si salutarono. Si sarebbero rivisti di li a poco nel paese che guarda l’immensa parete nord del Civetta. Ritornò verso il centro del borgo. Il sole ormai alto inondava di luce la vallata mentre gruppi di bambini giocavano fra le case, godendosi quei primi giorni di vacanze estive. Entrò in un negozio e ne uscì con pane e mortadella. E qualche lattina di birra. Si sedette su una panchina all’ombra. Guardava con curiosità quell’ambiente ordinato, con le cameriere che entravano e uscivano dagli alberghi, indaffarate e sorridenti. Gli piacevano i gerani rossi e bianchi che ornavano terrazzi e finestre. Mangiò un panino e bevette una birra mentre le campane suonavano il mezzogiorno. Passò un bel po’ di tempo su quella panchina immerso nei suoi pensieri. Chiudeva gli occhi e pensava a sessant’anni prima, quando, ancora bambino, accudiva le vacche sui prati sopra il paese. Pensava a quanto era cambiato quell’angolo di mondo dolomitico. Gli venne in mente la parola “turismo”, termine quasi sconosciuto al suo paese. Poi entrò nello stesso bar del mattino, bevette un bianco ed uscì. Caricò il “rusach” sulla spalla destra e si avviò. Nello zaino c’erano un panino, la mortadella e le birre. E nessun biglietto della corriera. Sarebbe ritornato a casa a piedi. Come un tempo. Quando le gambe erano più giovani e c’era la fame. Si fermò ad una fontana a bere e fare scorta d’acqua. Ripartì lentamente, con quell’andatura leggermente zoppicante, figlia di una vita di fatiche. Il tramonto lo sorprese mentre percorreva i rettilinei che portano a Passo Valparola. I ricordi lo attendevano lungo la strada, profumati di cirmolo e rododendro. Guardò le rocce incendiarsi e poi spegnersi lentamente. Ed arrivò una fresca sera di inizio estate. Giunse ai tornanti sotto il passo che era notte fonda. Una lucente mezzaluna ed un’infinità di stelle sopra la sua testa. A volte, quando si fermava a riposare, le guardava. Poi lo sguardo cercava i profili neri delle montagne. Finalmente poteva ammirarle con occhi diversi. Quella sera il passo non era più un calvario di fatica come tanti anni prima. Era un camminare nei ricordi. Si sentiva in simbiosi con quell’ambiente di alta quota. In meno tempo di quanto immaginava valicò il passo. Il forte austriaco della Grande Guerra sembrava aspettarlo come un fantasma di pietra. Entrò e si sedette con la schiena appoggiata ad una parete. Mangiò pane e mortadella e, dopo aver bevuto la birra, si addormentò per un paio d’ore. Si svegliò quando la mezzaluna era sopra la Marmolada. Ripartì. Ora era tutta discesa. L’alba arrivò limpida quando aveva raggiunto Pian Falzarego. Scendeva lungo il passo sfruttando le scorciatoie fra un tornante e l’altro. I piedi iniziavano a dolere, ma tenne duro. Qualche automobilista lo guardava incuriosito. Arrivò a Caprile a metà mattina. Sfinito. Aveva camminato per circa trenta km. Si fece coraggio con un’ombra di bianco nel primo bar del paese. Percorse ancora cinque km. Poi si arrese. L’avventura terminò su una panchina in riva al lago di Alleghe. A dieci km da casa. Dal traguardo. Però non si sentiva sconfitto. La vita gli aveva insegnato che a volte si vince e a volte si perde. Pensò che in fondo a casa a piedi ci era già arrivato una volta, e da molto più lontano. Dalla Francia, alla fine della guerra. Stavolta poteva bastare così. Dopo essersi riposato un po’ entrò in un bar e acquistò un biglietto della corriera. Aprì la porta di casa appena dopo pranzo. Con i piedi bolliti ed una serenità nuova. Dormì due giorni di fila. Sognando le stelle di Passo Valparola