CENCENIGHE
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In quelle lontane estati trascorse a Cencenighe a volte salivo a piedi fino a San Tomaso per passare qualche ora dai nonni. Poi, solitamente dopo le cinque, mi mettevo in cammino e scendevo lungo la provinciale. Poco più di due km di camminata, un po’ meno se prendevo lo “scurton” delle Martinazze. La strada era il regno dei silenzi. A volte non incontravo nemmeno un’auto durante il mio percorso. Se l’ora era quella giusta, potevo sentire ad oltre un km l’arrivo della corriera. Ascoltavo le frenate ritmate di Mario ed il cambio delle marce dopo il tornante di Fontanelle. Superato il bivio per Balestier mi accoglieva il vento. Dapprima leggero, poi mano a mano che mi avvicinavo alla curva delle “crepe” diventava sempre più forte. Un vento caldo quello che saliva dalle Cioipe. I larici sotto la strada muovevano i cimali mentre le foglie dei faggi cantavano una allegra musica estiva. Quando arrivavo alla curva la cima di Pape e le cime dello Spiz de Medodì mi davano il benvenuto. Mi piaceva fermarmi a guardare la strada che sale a Martin. Mi incuriosivano i primi tornanti che si arrampicano lungo la costa. Il nastro d’asfalto saliva come una sorta di elica perfetta, simile a quella del cavatappi che papà usava per aprire le bottiglie delle grandi occasioni. Poi la strada appariva e scompariva nel “Bosc dal Forn”. Pochi passi ancora e potevo vedere la statua di Sant’ Antonio Abate collocata sulla cima del campanile. Da quel punto della provinciale, curiosamente si vede spuntare a fianco del “Col de Pase” la cupola a cipolla con il Santo Patrono di Cencenighe. E l’ingannevole prospettiva li pone alla stessa impossibile quota, regalando una visuale che ancora oggi mi incuriosisce. Era un modo di vivere dove sembravano essere necessari due tempi distinti; quello della contemplazione e quello della confusione. Un vivere in due mondi opposti e lontani appena 2.3 km. Se San Tomaso era luogo di silenzi e meditazioni, “Cence” era l’esatto contrario in quei lontani mesi d’estate. Una mezz’ora scarsa di passeggiata per vedere ribaltato il modo di vivere. Se a San Tomaso il silenzio era pressoché assoluto, a Cencenighe il silenzio non c’era mai. Nemmeno la notte, quando erano il canto del Biois e l’orologio del campanile a tenermi compagnia. E pure il rombo di qualche macchina che saliva o scendeva dalla valle del Biois. “Cence” era viva, frizzante, quasi caotica d’estate. Ma un caotico divertente, carico di vita. Bastava aprire la porta di casa per ritrovarsi in compagnia di bambini ed anziani che con le loro corse ed i loro racconti rendevano quei momenti indimenticabili. Una sorta di passaggio del testimone fra generazioni diverse che intersecavano le proprie vite di fronte alla chiesa. Un paese che portava ancora le ultime ferite di quella tremenda alluvione del 1966 che aveva profondamente segnato l’esistenza della gente. “Prima de l’aluvion…dopo l’aluvion”. Una sorta di punto zero, un confine che divideva la vita di prima e quella di dopo. Quel 4 novembre del ’66 fu lo spartiacque di due epoche diverse per un paese che seppe rinascere dalle sue ceneri. Ricordo ancora l’argilla ancora presente in un angolo della cantina. “Le kela de l’aluvion” mi diceva mio padre. Ed io ci costruìì dei rudimentali portacenere con quell’argilla, che poi cucinai nella “cosina economica”. Poi, una mattina d’estate del 1988, arrivò sotto casa una pala gommata e con quattro colpi rase al suolo l’ultimo rudere di casa testimone “de l’aluvion”. Definitivo e simbolico atto di una rinascita frutto della tenacia della gente agordina. Al posto del rudere venne creato un parcheggio da dove partivano sgasando le moto che si dirigevano in valle del Biois. Soprattutto al mattino, nel parcheggio era tutto un vociare di villeggianti che si fermavano a fare la spesa. Bar e negozi sempre pieni. Un’allegria contagiosa che andava sfumando verso la fine di agosto. Per lasciare spazio ad una serena tranquillità. La quiete dell’autunno scendeva sul paese con il vento che faceva muovere la bandiera italiana posta sul pennone vicino al Monumento ai Caduti. Intorno alla metà di novembre chiudevamo casa e San Tomaso diventava il solo approdo di quell’eterno vagare sulla 203 Agordina. La casa di “Cence” ci avrebbe atteso con pazienza fino al termine della primavera successiva. Quando sarei ritornato ad ascoltare le mie campane ed il mio Biois.