UN TEMPO CHE FU
AUDIO
C’era la tranquilla serenità che regalavano i larici davanti alla casa dei nonni. Ed i boschi del Pelsa avevano il colore verde cupo dell’estate. I miei sguardi di bambino percorrevano il filo delle creste della grande montagna da nord a sud per poi scendere fino alle case di Colaz. Dove ancora si scorgevano i tabià ed i prati erano curati ed illuminati dal sole del pomeriggio. Il nonno aveva i pantaloni blu e la camicia a quadri e camminava lento davanti a me col secchio di acciaio in mano. Pochi passi e poi infilava la grossa chiave nella serratura della porta della stalla. Due giri decisi tenendola fra medio ed anulare, un tiro al chiavistello e la “porta de stala” si apriva. Un dolce tepore misto a profumo di fieno usciva da quell’antro ancora per me misterioso. La vacca era grande e grigia ed un po’ mi intimoriva con la sua mole. Il nonno entrava, io rimanevo sulla soglia a guardare i suoi gesti sicuri. Un paio di carezze sulla schiena dell’animale e poi si sedeva sullo “scagnel” con il secchio fra le gambe. Mi chinavo per vedere le meglio le sue mani che iniziavano l’operazione della mungitura. Era bello vedere quella mani nodose e forti, abituate a spaccare pietre a colpi di mazza e a “tirà taje” nel bosco, diventare delicate e gentili nell’afferrare con grazia i “tet de la vacia”. Forse anche l’apparentemente semplice gesto di mungere poteva rivelare la vera anima delle persone. In quel caso a rivelarsi era un’anima genuina e sincera celata da un po’ di scorza creata dalla guerra e dalle fatiche di una vita dura. Ma bastava poco per grattare via quella scorza ruvida: un panorama, un’alba limpida d’estate, il mungere la vacca, una mia domanda. Questo bastava per far uscire un’anima semplice e gentile. Le mani del nonno agivano rapide sui “tet” ed il latte pareva uscire come un filo bianco ed invisibile che non si interrompeva mai per diversi minuti. Finchè il secchio era quasi pieno. Terminata l’operazione il nonno si alzava, riponeva il secchio in un angolo e saliva nel tabià. Ascoltavo il fruscio del fieno mosso dalla forca e spinto nel “fumer”. I passi del nonno che scendeva di nuovo in stalla e metteva il fieno nella “carpia”. Poi un pugno di sale che la vacca leccava avidamente con la sua enorme lingua rosa. E a volte avevo paura che potesse ingoiare anche la sua mano insieme al sale, tale era il suo entusiasmo per quella prelibatezza. Dopo il sale era il momento di togliere il letame dalla stalla. Il nonno afferrava il badile, lo affondava nella canaletta e scaricava “la grasa” nella carriola che andava a svuotare sulla “cort” fuori della stalla. Era letame, ed aveva l’odore del letame. Ma serviva e lì doveva stare. Che non si buttava via nulla ed era il migliore concime per i campi. A pulizia terminata era il momento di portare da bere alla vacca con la grande vasca di metallo. E la vacca beveva di gusto mentre il nonno portava in casa il secchio pieno di latte. Sopra la credenza c’era il contenitore bianco da un litro. Il nonno lo riempiva a metà e poi me lo dava. “Tò…bevi…”. Era latte che non era minimamente il latte che bevevo abitualmente a casa. Era completamente diverso e squisito. Ancora tiepido, denso e schiumoso. Lo bevevo così, senza nemmeno bollirlo. E mai ho avuto un mal di pancia. Perché nessun mangime oltrepassava la porta della stalla. Solo fieno nella pancia della vacca. Ed il sapore del latte lo testimoniava. La nonna nel frattempo armeggiava preparando il cibo per il maiale. Ed il maiale per me era un mistero. Chiuso nel “porzil” non lo vedevo mai. A volte lo sentivo grugnire minaccioso ed era vietato toccare il chiavistello della porta. Guai se fosse fuggito, riprenderlo sarebbe stata impresa ardua che peraltro capitò al nonno. Impresa che non aveva nessuna intenzione di dover replicare. Del maiale potevo vedere solo il grugno che spuntava dal “naf” quando gli portavamo da mangiare. Lo ascoltavo mangiare avidamente quel cibo preparato con cura. Tutta roba naturale, ed i salami lo avrebbero testimoniato la primavera successiva. Le galline, invece, potevo curarle anch’io che era facile. Bastava aprire il “seraglio” a metà mattina e recuperarle prima di cena. Non occorreva dar loro da mangiare perché erano autonome in tutto. Alla faccia del detto “cervello di gallina”. Mi stupivo di come potessero produrre ogni giorno un uovo. Eppure era così, e ne avevo la conferma ogni mattina quando a andavo a vuotare la cassetta di legno con il fieno. Poi la nonna faceva un buco nell’uovo ed io lo bevevo così. Dal produttore al consumatore. Era un mondo semplice. Di gesti semplici e tramandati da sempre ma che andava spegnendosi giorno dopo giorno. Ero piccolo ma qualcosa intuivo. Un po’ dai discorsi dei nonni ed un po’ dal mio vivere a Belluno, dove potevo vedere avanzare un progresso che a casa dei nonni non sarebbe mai arrivato. La vacca rappresentava un po’ il punto di equilibrio fra un mondo arcaico e la modernità che andava avanzando. Fieno e carriole di letame mentre in casa a Belluno era entrata la TV col telecomando e perfino il Televideo. Andò avanti ancora per poco questo sottile equilibrio fra antico e moderno. Poi vinse il moderno. Dopo l’ultima “becaria” per noi si chiuse un’epoca. Andò in archivio una stagione durata chissà quanti decenni. Tutto finì in quegli ultimi giorni novembre di metà anni ’80. Niente più latte e niente più fieno da rastrellare. Rimasero i larici ed il Pelsa a vegliare quell’angolo di Dolomiti dove il vivere era cambiato per sempre.