STAGIONE 1, PUNTATA 01 17 dicembre 2019
Inizia oggi una nuova rubrica all’interno del GIORNALE RADIOPIU’, testo e audio con Paolo Soppelsa, attento conoscitore del territorio.
di Paolo Soppelsa
La curva che portava fuori dalla gola dei Castei era a destra. Vi si arrivava in quarta piena con la 127 color del cielo. Mi piaceva guardare i piedi di papà fare un bel punta/tacco scalando in terza. Poi a volte trattenevo il fiato, perché all’esterno della curva non c’era il guard-rail. Uscivamo a cannone da quella svolta e davanti a noi appariva la Casa Giovannelli. Che sul muro aveva appeso un cartello “vendesi” che stette lì almeno vent’anni. E ridevamo di gusto mentre pronunciavamo la fatidica frase “vosto che sie chi che la compra chela carobera”. Ma il tempo ci diede torto, e da ormai parecchi anni quella casa misteriosa è diventata una bella trattoria. Poi tre curve leggere ci portavano al Ponte del Cristo. Ed ogni volta mi chiedevo dove fosse questo cavolo di ponte. Che in realtà ce n’era un pezzo a bordo strada. Cinque o sei metri, poi il vuoto. E papà diceva “l’era l’era el pont…vardelo du inte Cordeol…el se la menà via l’aluvion”. Ed in effetti un pezzo del ponte c’era, sdraiato tristemente nelle ghiaie del Cordevole. Che si vedeva meglio quando tornavamo verso Belluno. Ma dove arrivasse dall’altra parte questo ponte era un mistero. Aldilà della strada c’era solo un versante di frana. E papà diceva “l’era anca la strada de là, ma la e partida fora par l’acqua sempre da l’aluvion”. Che questa alluvione doveva essere stata veramente tremenda per aver combinato tali disastri. Poi curvone veloce a sinistra e sullo sfondo appariva il villaggio, allora fantasma, di Valle Imperina. Che inevitabilmente catturava gli sguardi ed i pensieri non solo dei bambini, ma pure degli adulti. E quando c’era mamma in macchina arrivava quasi sempre il suo commento “varda che laoro…tut desfà…pecà che i ha serà su tut…i laorea in tanti inte le miniere”. E gli occhi si incollavano al finestrino, soprattutto d’inverno quando la neve e la brina aggiungevano mistero al mistero. Tentavo di immaginare come dovesse essere stato quel villaggio così affascinante quando era abitato. E papà diceva “le dut tut in malora da l’aluvion”. Ancora sta “aluvion”. E mi immaginavo l’acqua marrone del Cordevole che si portava via i pezzi di quelle antiche case. Ma non riuscivo a dare una dimensione esatta a questo evento datato 4 novembre 1966. Chissà com’era stata quella storia. Poi, a quarantuno anni, ho avuto modo di capire come funziona un’alluvione. Purtroppo. Mentre salivamo lungo la salita delle Campe cercavo di immaginare il treno. Quello che passava nelle gallerie dei Castei. Eh no, quello era troppo anche per la fantasia di un bambino. Non poteva essere. Ed invece c’era stato un tempo in cui un treno arrivava fino ad Agordo. C’erano il ponte e la galleria a Ponte Alto a testimoniarlo. Eppure il dubbio rimaneva. Ed allora arrivava la frase “varda che son montà anca mi calche ota su chel treno…”. Non rimaneva che crederci, come si crede alle leggende che entrano ed escono dalla realtà. Poi, dopo il bivio per Rivamonte, si entrava nel paese dov’ero nato. Quello con la chiesa con ben due campanili e la piazza con i cubetti di porfido come in centro a Belluno. E mancavano solo nove km a Cencenighe.
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