PRIMA VOLTA A CELAT
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Sicuramente c’ero già stato in piazza a San Tomaso. Ma ero troppo piccolo per ricordare. Il primo ricordo nitido risale a quando avevo cinque o sei anni. Era giugno inoltrato e sulle banche del Pelsa c’era ancora un po’ di neve. Quel giorno era caldo ed il cielo era quello classico di inizio estate. Appena dopo pranzo la nonna mi disse “…fra poc don fin via a Zelat…” La guardai con stupore. Fino a Cencenighe ci eravamo già avventurati qualche volta a piedi a fare la spesa. Ma era tutta discesa e poi eravamo rientrati in corriera. Per andare a Celat, invece, era tutta salita. Mi preparai come ci si prepara per una grande escursione. La nonna indossò un vestito nero e mi disse che “…dovon dì an funeral…” Però non si mise il velo in testa perché era una nonna piuttosto moderna per i tempi. A me francamente del funerale interessava poco, mi interessava di più il paesaggio che avrei ammirato durante la camminata. Salimmo in strada e partimmo lentamente. Pochi passi e salutammo la “brenta” che cantava gioiosa mentre noi andavamo al funerale. Appena superato il gran curvone dove papà parcheggiava la macchina mi accorsi subito di una cosa particolare: dietro il Pelsa esisteva un’altra montagna che ad ogni passo spuntava sempre di più da sopra le creste del Pelsa. Era grigia e senza alberi ed erba. La nonna accelerò il passo leggero che aveva ed in breve arrivammo a Tocol. A questo punto la montagna misteriosa si era svelata quasi del tutto. La nonna si accorse che guardavo e mi disse “…chel là le el Zoita…”. Era il Civetta. La mitica montagna che avevo già sentito nominare con riverenza. Ora ce l’avevo davvero davanti e potevo finalmente ammirarla questa montagna. Perso in quelle visioni mi ritrovai dopo la curva “dela siega” sul rettilineo che porta a Celat. Ora sentivo un po’ la fatica perché la nonna, abituata a camminare parecchio, aveva un’andatura piuttosto veloce. Giungemmo in piazza quando la campana andava sfumando i rintocchi a morto. Il paesaggio era un sogno. Con la bella chiesa con il campanile un po’ simile a quello di Cencenighe ed il Civetta che adesso era veramente un qualcosa di maestoso. Sulla scalinata della chiesa c’erano parecchi anziani che la nonna salutò. Ricambiarono il saluto e qualcuno mi diede una carezza sulla testa. Entrammo e prendemmo posto su un banco a metà chiesa. Entrava un gran luce dalle finestre e la bara di legno scuro era posta davanti all’altare. Il prete diede inizio alla cerimonia e c’era silenzio. Si respirava un’aria di composta serenità. Non c’erano pianti, solo qualche sospiro che proveniva dai banchi vicini all’altare. Non ricordo chi fosse il defunto, ma doveva essere molto anziano perché il parroco parlava di una lunga vita di lavoro e fatiche. E che da lì in poi avrebbe vissuto serenamente in Paradiso. E chissà come doveva essere quel Paradiso. A me sembrava che fuori dalla chiesa, in fondo, fossimo già in Paradiso. La cerimonia finì e quattro persone si caricarono la bara in spalla e la portarono nel cimitero sotto la chiesa. La depositarono nella cella mortuaria e la gente iniziò pian piano a diradarsi. Qualcuno tornava a casa, altri approfittavano per visitare qualche congiunto sepolto lì. Anche la nonna volle farsi un giro veloce fra quelle tombe. Fece tre o quattro segni della Croce e poi risalimmo in piazza, che a lei i cimiteri non piacevano poi molto. Prima di riprendere la strada di casa ci fermammo un attimo al bar. La nonna mi comprò un ghiacciolo perché ero stato bravo ad arrivare a Celat e mi ero comportato bene durante il funerale. All’interno del bar rividi alcuni uomini che poco prima erano in chiesa. Bevevano “un’ombra” e parlavano piano, forse del funerale e del defunto. Ripartimmo mentre scartavo il ghiacciolo e stavolta era tutta discesa. Si camminava più veloci che all’andata ed in poco tempo il Civetta era ritornato a nascondersi dietro il Pelsa. Arrivati a casa la nonna decise che aveva ancora tempo di fare qualcosa di utile e si sedette sugli scalini davanti al tabià a battere la “faoz”. Le sue mani battevano veloci e sicure su quella lama che avrebbe tagliato il primo fieno di lì a pochi giorni. I larici erano verdi e nei prati c’erano i fiori. Ed io, quel pomeriggio, avevo visto per la prima volta il Civetta. Sapendo che quel pomeriggio non l’avrei scordato mai più…Magiche Dolomiti!!!