DOPO LA TEMPESTA
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Quando fuoco pioggia e vento si erano placati era già novembre. La tempesta era passata con tutta la sua ferocia togliendo l’autunno dai rami e portando l’inverno nell’anima degli uomini e delle montagne. Dopo la metà del mese triste sulle valli era calato un possente silenzio, l’acqua dei torrenti era ritornata a scorrere negli alvei sconvolti, il rombo potente dei gruppi elettrogeni era ormai svanito ed io, nel pomeriggio di una umida domenica, mi ero recato nuovamente nel bosco ferito. L’avevo già visitato nei giorni appena successivi al disastro, i giorni degli elicotteri che volavano in direzione dell’Alto Agordino e dei pensieri che si accavallavano di fronte ai grovigli di alberi schiantati. Avevo vissuto il tempo delle colonne dei camion dei soccorsi in fila lungo l’Agordina e dell’acqua ancora tumultuosa e marrone del Cordevole, ora invece stavo vivendo il tempo della classica quiete dopo la tempesta. L’autunno era solamente nel cielo plumbeo di quella domenica, nel bosco e nel cuore invece era stagione dei silenzi. Piovigginava a tratti in quel grigio primo pomeriggio e dall’orlo del monte ammiravo un paesaggio stanco. Laggiù in basso il lago del Ghirlo non c’era più, solo ghiaia e fango al posto delle acque dove fino a qualche settimana prima si specchiava il Pelsa. Nel bosco, invece, la tristezza era indotta dalla visione dei due grandi abeti distesi malinconicamente a terra. Erano i patriarchi del bosco, probabilmente i più anziani; uno era quello “de confin”, cresciuto imponente su di un piccolo pendio, era uno dei simboli di questo bosco, riconoscibile, oltre che dalla sua mole, anche dal vistoso segno rosso del confine disegnato sul tronco. L’altro, situato ad una cinquantina di metri, svettava su di un piccolo colle dalla sommità del quale sorvegliava quel pianoro che un tempo era prato. I due grandi abeti erano i veterani del bosco, guardiani silenziosi del monte, depositari di tante storie. Chissà quante volte i nonni avevano riposato sotto alle loro fronde mentre falciavano il grande prato. Avevano resistito alle imponenti nevicate di tanti inverni passati e pure all’alluvione del ’66 che aveva provocato danni anche in questi luoghi. Questa volta, invece, la tempesta li aveva stesi senza pietà durante quella triste sera del 29 ottobre. Li osservavo e li immaginavo guardarsi increduli mentre quel terribile vento li piegava. Chissà se avevano capito a quale destino stavano andando incontro. L’abete del “confin”, imponente, con i rami della parte bassa grossi quanto un braccio, aveva lottato senza spezzarsi ed era caduto sollevando le radici. Il suo dirimpettaio invece si era brutalmente spezzato, lasciando una “zoca” sventrata che faceva intuire la violenza che aveva dovuto subire. Il cielo grigio di novembre e quella pioggia che scendeva sottile regalavano un’immagine funerea al monte. In quei momenti pensavo che forse non sarei nemmeno dovuto salire lassù, forse il bosco in quei giorni voleva starsene da solo a guarire le sue ferite. Mi sentivo quasi di troppo nel silenzio di pietra che avvolgeva la montagna, sentivo di aver ferito la sua anima spenta. Seduto su una “zoca” osservavo i rami spogli dei faggi e pensavo che la montagna, in fondo, non è solo splendidi colori pace e tranquillità. No, è anche un ambiente che talvolta può diventare severo e silenzioso. Nuvole cariche di altra pioggia risalivano i costoni coperti di larici ormai addormentati, mentre nel bosco gli alberi schiantati crepitavano emettendo schiocchi improvvisi e severi. “…grazie Paolo per essere venuto a farci visita, ma ora vai, lasciaci soli a guarire la nostra anima ferita…”. Così parlarono gli alberi mentre il pomeriggio iniziava a tramutarsi in sera. Era tempo di andare, di lasciare quella quiete dolorosa del dopo tempesta; quando sarei tornato, forse, avrei trovato la neve e nuovi silenzi d’inizio inverno.
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