di RENATO BONA
BELLUNO Furono evidenziati nell’Agordino da un monitoraggio del 2001 a cura della Fondazione Giovanni Angelini nell’ambito del Progetto Interreg I bacini del torrente Rova di Framont e del torrente Tegosa sono stati monitorati dalla Fondazione Giovanni Angelini centro studi sulla montagna nell’ambito del Progetto Interreg II che riguarda il controllo dei versanti alpini. In proposito è stato stampato nel 2001, da Gierre grafica di Caselle di Sommacampagna in provincia di Verona un libretto con il prezioso contributo di V. Fenti, C. Lasen, M. Masini e G.B. Pellegrini, dove sono esposti i punti critici, la rilevazione fotografica, gli indicatori, la banca dati, il controllo periodico, l’analisi del rischio e, infine, le schede di monitoraggio. I bacini idrografici del Rova e del Tegosa – si ricorda nell’introduzione – sono sottobacini del torrente Cordevole e del torrente Biois, entrambi in territorio agordino. La loro estensione è relativamente ridotta e le caratteristiche geologiche, morfologiche, climatiche ed antropiche sono tali da poterli definire dei territori alpini particolarmente esposti alle calamità naturali, che nella fattispecie sono rappresentate dal rischio idrogeologico. La loro storia del resto evidenzia questa vulnerabilità “che ha raggiunto il suo massimo con la grande alluvione del novembre 1966” quando “ingenti furono i danni economici ed i costi sociali. Nella stessa Falcade, a pochi chilometri dal bacino del Tegosa, vi furono 11 morti”. I curatori della ricerca sul territorio puntualizzano quindi: “In tutto l’Agordino furono distrutte abitazioni, interrotte le vie di comunicazione, l’acqua potabile non fu disponibile per giorni, le fognature, la corrente elettrica e le telecomunicazioni furono messe fuori uso ed i primi soccorsi giunsero soltanto a piedi, per opera dei volontari delle valli limitrofe (non meno disastrate dall’alluvione). Numerosi furono i senza tetto in una stagione che volgeva verso il gelido inverno”. Detto che l’uomo ha da sempre fatto i conti con questa realtà nel corso dei secoli, sviluppando una particolare sensibilità nei confronti della cura del territorio che le attività agricole, silvo-pastorali e minerarie ponevano come unica risorsa per il sostentamento della popolazione, viene lamentato il fatto che “Negli ultimi decenni la società si è rapidamente4 sviluppata e modificata. L’industria ed il turismo hanno assunto ruolo centrale dell’economia. Nel primo caso il territorio montano è diventato una sorta di ostacolo allo sviluppo dei trasporti, mentre nel secondo caso l’ambiente è stato preso d’assalto per la pratica delle attività turistiche estive ed invernali”. A ciò – si legge ancora – è seguita una minore cura del territorio che è stata delegata alle istituzioni attraverso l’impiego dei tecnici. Un sistema poco efficace sia per l’insufficienza delle risorse sia per l’eccessiva politicizzazione e burocratizzazione degli interventi. In sintesi è venuto a mancare quel capillare monitoraggio che era garantito dal contadino e dal montanaro. Così che “in poche generazioni la gente ha perso quella percezione del rischio, che le permetteva di interpretare i segnali della natura e di comprendere l’evolversi dei fenomeni troppo spesso disastrosi”. La conclusione: “L’obiettivo principale di questo manuale è quello di consentire a chiunque lo voglia (giovani delle scuole, operatori del Cai, volontari della Protezione civile ed altri, di riappropriarsi di quella capacità perduta di saper leggere i segnali di cambiamento del territorio”. Quindi la pubblicazione precisa, sotto il titolo generale “Il metodo” la procedura adottata, articolata nell’individuazione dei punti critici significativi; la rilevazione fotografica; la descrizione dei punti critici attraverso alcuni indicatori riportati in una scheda di rilevamento: la creazione di una banca dati:il periodico aggiornamento delle schede e della stessa banca dati attraverso periodici sopralluoghi; l’analisi comparativa dei dati al fine di individuare segnali di evoluzione dei versanti e di possibile aumento del rischio. Una spiegazione sui punti critici: “Quelli individuati sono in numero limitato per ogni bacino. Ciò non vuol dire che siano soltanto queste le zone fonte di pericolo per il territorio e che l’analisi del rischio si limiti al controllo di tali aree. Infatti le valutazioni complessive sull’evoluzione dei versanti vengono effettuate integrando più metodologie, facenti parte dell’intero Progetto Interreg II”.
NELLE FOTO (riproduzioni dalla pubblicazione “Monitoraggio dei punti critici del territorio”): la copertina del manuale curato dalla bellunese Fondazione Giovanni Angelini; a sud-ovest di Case Nagol, a quota 665; la località Case Nagol lungo la strada presso il Crocefisso; chiusura del bacino a quota 754, dal ponte verso monte; sezione di chiusura del bacino; sezione dalla spalla sinistra del ponte; lungo l’alveo a Rova di Framont a quota 1180; altra immagine ripresa alla base della briglia inferiore sulla sinistra del torrente; Rio dei Casoni tra Val Piana e Fraide, a quota 1320; località Fraide a quota 1475; località Pian de Feder a quota 1530 dall’alveo del torrente; tra Colmean e Feder a quota 1244 dal ponte contiguo; la località Val de Rif, a quota 1150, dall’alveo del Rif.