di Matteo Manfroi
COLLE SANTA LUCIA. I Colcuc, calzolai da tre generazioni. In negozio a Colle (il figlio ha un altro esercizio a Santa Fosca) oggi c’è l’incredibile Pio, nato nel 1928, uno degli ultimi calzolai dell’Agordino.
Uno dei principali motivi per cui il negozio di via Villagrande risulta ancora aperto è la tenacia, la determinazione e la voglia di chi, a 91 anni suonati, svolge ancora con successo il suo compito. Insomma, una vera e propria memoria storica ed istituzione di Colle, visto i trascorsi che Pio Colcuc ha avuto come sindaco del paese negli anni Settanta.
L’inizio della passione per l’attività di calzolaio Pio lo deve soprattutto a suo padre:«Ho cominciato a fare questo mestiere grazie a lui. Mio padre era andato addirittura a Santa Cristina di Val Gardena per imparare il mestiere sotto la guida di suo zio Matteo Codalonga. Dopo aver ottenuto il diploma, è tornato nel paese natale e ha conosciuto Pietro Bernardi, che lavorava in una casa qua a Colle. Quando quest’ultimo partì per gli Stati Uniti, mio padre ricevette in dono gli attrezzi fondamentali per intraprendere l’attività. Poi c’è stata di mezzo la Grande guerra e mio padre venne chiamato sul fronte turco. Al ritorno il matrimonio e la decisione di ricavare un piccolo laboratorio artigianale nei locali dove c’è l’attuale Cesa de Jan. Ricordo che quando andavo a scuola, finite le lezioni, mi fiondavo nel suo laboratorio per carpire i segreti. Quando ancora lavoravo con lui i primi anni mi sono messo a produrre lacci perché temevo di non essere in grado di fare il grande salto , dopo di che sono passato alle scarpe. Mi ci è voluto un sacco di tempo per imparare il mestiere, ma alla sua morte ero pronto. Decisi, così, di riqualificare le stanze da letto della mia abitazione per creare il mio laboratorio. Così è nato il sogno ».
Nel periodo dopo la fine della seconda guerra mondiale la gente di Colle venne chiamata a una scelta per nulla facile: dovevano infatti votare per rimanere nel paese natio oppure optare per il Reich. Un periodo non semplice per tutti gli abitanti soprattutto dal punto di vista emotivo, non fa eccezione Pio, la cui attività però ha resistito. «Nel dopoguerra ricordo che andavo a fare riparazioni a domicilio nelle frazioni vicine. Pensi che passavo delle settimane ad esempio Rucavà, per eseguire le riparazioni. Se non riuscivo a terminare il lavoro, trovavo ospitalità nelle case degli abitanti. C’era una solidarietà tutta diversa da oggi. Altri tempi», sospira Colcuc.
Le dinamiche del commercio sono molto cambiate dagli anni Cinquanta ad oggi, non fa eccezione nemmeno la sua attività
«All’inizio avevamo un bel giro di clienti. Mi ricordo che a Colle c’erano tre alberghi e tutti venivano a comprare le mie scarpe fatte a mano. Poi, piano piano, con il passaparola il mio giro d’affari si è allargato. Una volta era una prassi per quelli che si sposavano andare a comprare le “scarpe da festa” fatte rigorosamente a mano. Ora non più. L’Industria ha superato tutto».
Ecco parliamo dell’ evoluzione del commercio, secondo lei è un bene o un male?
«Per come la vedo io le industrie non riescono a sostituire la qualità di un lavoro fatto a mano. Poi, certo, l’evoluzione ci deve essere per tutte le cose. Ad esempio, una volta per fare un ottima scarpa si utilizzavano nove fili di Canapa. Questi erano importanti per legare la suola alla parte superiore della scarpa, chiamata tomaia. A livello industriale, invece, si utilizza il nylon. Insomma meno qualità ma più velocità nella costruzione».
Pio Colcuc ci mostra con orgoglio una scarpa fatta a mano: «Per fare delle ottime scarpe ci vogliono degli ottimi materiali, tipo cuoio e gomma. Vede», ci spiega, «anche questi lacci sono fatti a mano. Adesso non li fanno più così».
Ci racconti un aneddoto particolare…
«Sicuramente posso citare la storia di questa scarpa. L’aveva realizzata mio padre nel 1914, pensi. Queste scarpe hanno resistito alle razzie commesse dagli italiani nel 1915. Noi abitanti di Colle avevamo trovato un particolare sistema: scavavamo un buco ubicato nell’attuale frazione di Rucavà e lì nascondevano tutti i nostri preziosi, Tra cui anche queste calzature».
Consiglierebbe a un giovane di intraprendere quest’attività?
«Una volta sì, oggi non più. Ho tramandato la passione a mio figlio Paolo, che adesso ha un negozio a Santa Fosca. Forse ai giovani manca la passione per fare questi antichi mestieri».
IL SERVIZIO DI MATTEO MANFROI