di RENATO BONA
La nascita del regno d’Italia è datata 1861. Un regno di pochi ricchi e nobili, di grandi proprietari terrieri, di possidenti, e un regno di tanta povera gente, di affamati, di ‘plebe’ che possedeva solo… le braccia per lavorare. La fonte di sopravvivenza per questi ultimi era l’agricoltura, l’allevamento del bestiame, la pastorizia, il piccolo artigianato, il salariato precario… Boschi, prati e pascoli, specialmente in montagna erano i beni comuni. Ma non dovunque, che assicuravano il minimo indispensabile per sopravvivere. “E quando nacque la speranza che emigrando si poteva stare meglio e vivere più dignitosamente, l’espatrio, l’allontanamento da casa, vicino o lontano, divennero un fenomeno singolo e di massa”. Gli autori di “Piccole grandi storie di emigranti”, il libro edito nel dicembre 1991 con Media Diffusion e Agenzia Polaris: Ivano Pocchiesa, Mario Fornaro ed Aduo Vio, avevano quindi raccolto alcuni pareri su come si viveva in provincia di Belluno a cavallo del 1800-1900. Giovanni Fontana, Comelico: “Ricordo che nel primo decennio del secolo si filava, nelle case, il lino, la canapa e la lana, si falciava l’erba sui monti e alla sera i falò, che venivano tradizionalmente accesi dai partecipanti all’alpestre fienagione, costituivano uno spettacolo. Gli alimenti principali erano il ‘mos’ o ‘pestarei’ ossia la farinata, la polenta, le patate…”. Mario Ferruccio Belli, Valle del Boite: “La carne era principalmente quella dei castrati e delle pecore; nessuno mangiava polli… Più volte venne aperta a San Vito una macelleria ma sempre con poco successo; la frutta, salvo le poche e striminzite mele spontanee locali era praticamente sconosciuta, i ragazzi conoscevano le ‘stracaganasce’ e le ‘carobole’ (castagne secche e carrube): il pesce era un altro illustre sconosciuto a tavola…”. Erano due aree similari, salvo poche differenziazioni, a tutta la provincia, con qualche eccezione, forse nel capoluogo Belluno e in grossi centri come Feltrino, Agordo, Pieve di Cadore, Cortina. Esponevano poi una serie di dati e prospetti statistici sul fenomeno migratorio di Italia, Austria, Ungheria, Germania, Gran Bretagna e Irlanda, Portogallo, Russia, Spagna e Svezia che vedevano l’Italia largamente prima in fatto di emigrazione oltre oceano, anche clandestina, a partire dal 1876 e fino al 1901 e ponevano la domanda delle domande: “Qual’era il destino di tutta questa umanità? Per prercisare: “Ci fu chi cadde dalla padella nella brace, per dirla con un proverbio antico. E chi invece, pur dopo un non facile periodo di ambientamento e di rodaggio “si conquistò il suo spazio al sole”. Citavano in proposito alcuni episodi riportati dai giornali locali del Brasile: da ‘O Pais di Rio de Janeiro: “… Stanno da moltissimi giorni circa 80 immigrati ai quali nessuno ha dato fin’ora alloggio né soccorso. Tra questi disgraziati vi sono donne e fanciulli pallidi e smunti, che non sanno dove trovare le autorità per ricevere gli aiuti del governo”. Dal “Bersagliere”pure di Rio de Janeiro: “… Nell’isola dei Fiori, nel Rio Grande do Sul, 237 immigrati sarebbero morti di stenti e di fame in 17 giorni…”. Antonio Cordella emigrato in Brasile nel 1892 scriveva al sindaco di Zoldo, Giovanni Duanelli per illustrare la situazione personale e di tanti altri e, fra l’altro, segnalava “scarsezza di preti…”. Mentre don Domenico Cassol, che fu per lustri nel direttivo dell’Associazione bellunese degli emigranti sottolineava che “La mano caritatevole della Chiesa fece sentire, fin dall’inizio delle penetrazioni, la sua presenza materna, attraverso l’attuazione coraggiosa dei suoi sacerdoti”. In realtà – puntualizzavano Pocchiesa, Fornaro, Vio – in Brasile “terra d’emigrazione ‘privilegiata dei veneti, nella seconda metà dell’’800 non mancavano solo i preti ma anche medici, levatrici… Negli insediamenti degli emigrati, all’interno della foresta (mato), in luoghi selvaggi e spesso inospitali, un ruolo tutto particolare è toccato ai vecchi che secondo la necessità dovevano improvvisarsi medici anche per far nascere i bambini e curare gli ammalati. e preti per seppellire i morti… Non mancavano quindi di ricordare – e concludiamo – che “Naturalmente ce n’era anche per le donne, con Gigi Meneghello che in “Libera nos a malo”, Milano 1963: scriveva fra l’altro: “… Il maschio è naturalmente pagano, e tocca alla sposa cristiana, non tanto convertirlo, quanto salvargli l’anima. Il maschio selvaggio beve, gioca, bestemmia, molesta le donne, mena le mani. La sposa missionaria non contrasta questi suoi costumi, ma bada al sodo, che è quel minimo di messe, sacramenti e devozioni sufficienti a restare fondamentalmente in buona col cielo… Prendere i maschi di petto sarebbe assurdo, come voler spiegare l’algebra ai cannibali. Ma fin che c’è donna c’è speranza…”. NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “Piccole grandi storie di emigranti”): i problemi di vita non impedivano di sorridere davanti ai primi obiettivi fotografici; come vestivano negli anni fine ‘800 primi ‘900: quasi sempre il fotografo ambulante del momento, per la posa forniva anche i vestiti; la partenza dal porto, con la disperazione “pennellata” nei vecchi, nei bimbi, nelle madri che allattavano, negli uomini coricati per terra, nelle poche sostanze in ceste di vimini e valigie, in donne incinte (Angelo Tommasi 1858-1923, Galleria di arte moderna e contemporanea di Roma); la nuova condizione sociale in terra straniera: attrezzi da lavoro nelle mani e a spalla, volti già più sereni e quasi fieri della propria operosità (Aldo Locatelli 1915-1962, Centro amministrativo di Caxias do Sul, murales 2,77 x 30,05 metri); un saluto in divisa imposta ai “BL” (Bravi Lavoratori), bellunesi a Mogadiscio in Somalia nell’anno 1935; prima a destra: Marina, madre dello scultore Fiabane, pure lei emigrante, a Matt, cantone di Glarus in Svizzera, 1933; Belgio 1946: quadretto familiare e sullo sfondo le baracche; sul retro della foto si può leggere: “scherzeti che nella mia cara patria non ho mai potuto fare invece qui la bira è sempre a portata di mano come lacqua in Italia”; calderai e stagnini del Comelico; gruppo di zattieri di Polpet che spesso seguivano la “via della Mora”: la Moravia, in Romania, lungo il Danubio, prima della Grande Guerra (dal volume “Storia di Polpet e di Ponte nelle Alpi”).