LO DISSE TRILUSSA IN UN SUO SONETTO
«Ma che li fate a fare ‘sti presepi?»
di DINO BRIDDA
Il momento è difficile, lo sappiamo bene. Stiamo diventando quasi tutti un po’ più nervosi, intolleranti e sfiduciati. Così, ad esempio, tra le cose che accentuano i nostri fastidi quotidiani, troviamo pure il sentire in televisione un eccesso di “romanesco” che attraversa i vari programmi al posto della lingua italiana. Ciò non toglie che, mantenendo un atteggiamento di sereno equilibrio, ci si possa concedere una tregua, tanto per alleggerire la situazione. Ecco allora che, se proprio vogliamo una volta tanto tollerare l’uso del dialetto della capitale, è bene farlo con le parole di quell’arguto cantore capitolino che risponde al secolo al nome di Carlo Alberto Salusti, in arte Trilussa. Nato a Roma il 26 ottobre 1871, scomparve il 21 dicembre 1950, esattamente settant’anni fa. Sembra che, sul letto di morte, abbia pronunciato la frase: «Mò me ne vado», magari a raggiungere quel suo collega, Giuseppe Gioachino Belli, che aveva esalato l’ultimo respiro nel medesimo giorno del 1863 dopo aver dileggiato con i suoi versi, tra gli altri, Gregorio XVI, il primo papa bellunese. A dire il vero nemmeno Trilussa fu tenero con la Chiesa, i sacerdoti ed i rigidi papalini. Trilussa, inoltre, sapeva di essere nel mirino della censura fascista, così, ispirandosi ad Esopo e a La Fontaine, nei suoi sapidi sonetti sostituì sempre gli uomini con gli animali: i difetti dei primi diventarono i difetti dei secondi, ma questi ultimi non potevano di certo opporre querela, perciò l’intento satirico di fustigatore dei costumi umani rimaneva in tal modo impunito, anzi molto applaudito dal popolo. Venendo al tempo di Natale ci colpisce la morale contenuta in questo sconsolato sonetto, perché è di un’attualità più che mai viva. In questi suoi versi, dedicati al presepe, il poeta fa parlare nientemeno che Gesù: «Ve ringrazio de core, brava gente,/pé ‘sti presepi che me preparate,/ma che li fate a fa?/Si poi v’odiate,/si de st’amore non capite gnente…/Pé st’amore sò nato e ce sò morto,/da secoli lo spargo dalla croce,/ma la parola mia pare ‘na voce/sperduta ner deserto, senza ascolto./La gente fa er presepe e nun me sente;/cerca sempre de fallo più sfarzoso,/però cià er core freddo e indifferente/e nun capisce che senza l’amore/è cianfrusaja che nun cià valore». Nonostante la premessa iniziale pare che non ci sia bisogno di traduzione: il concetto è chiaro e del tutto condivisibile. La sua morale richiama un valore umano senza il quale le nostre azioni rischiano di essere povere e inefficaci, oltre che apparire poco sincere, se non ipocrite. Alla fine dobbiamo ammettere che Trilussa, al contrario di tanti suoi pseudo successori da teleschermo, è riuscito a parlare a tutti gli italiani, basta leggere la sua corposa raccolta di sonetti. Proprio per questa sua dote il piemontese Luigi Einaudi, all’epoca presidente della Repubblica, lo nominò senatore a vita. Era il 1° dicembre 1950. Venti giorni dopo Trilussa andò all’aldilà a recitare in vernacolo romanesco i suoi versi che, probabilmente, avranno fatto sorridere anche gli angeli e i santi. E, perché no?, fors’anche il Padreterno.