I BIG DEL WEB E FCA NEL 2018 HANNO PAGATO 64 MILIONI DI IMPOSTE: 600 VOLTE MENO DELLE TASSE VERSATE DALLE NOSTRE PICCOLE IMPRESE.
La CGIA alza il tiro e si “scaglia” contro le multinazionali del web che in Italia producono fatturati milionari, anche se solo una piccolissima parte viene successivamente dichiarata in Italia. Questa anomalia, pertanto, consente a queste realtà di versare al nostro fisco pochissime imposte.
Nel 2018, ad esempio, l’aggregato delle controllate in Italia appartenenti a una quindicina circa di big tecnologici ha fatturato 2,4 miliardi di euro (pari allo 0,3 per cento del totale WebSoft mondiale). Gli addetti che lavorano nel nostro Paese sono quasi 10 mila e al fisco italiano questi colossi dell’hi-tech fanno pervenire poche “briciole”: solo 64 milioni di euro.
Nello stesso anno, invece, le nostre micro e piccole imprese, con meno di 5 milioni di fatturato, hanno generato un volume di affari di 926,7 miliardi, dando lavoro a più di 10 milioni di addetti. Il contributo fiscale giunto all’erario da queste piccole realtà è stato di quasi 39,5 miliardi di euro: un importo di 600 volte superiore al gettito versato dalle multinazionali del web. Dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo:
“Ormai è diventata una questione di giustizia sociale. Grazie al boom dell’ e-commerce, in questi due mesi di lockdown le multinazionali del web presenti in Italia hanno aumentato i ricavi in misura esponenziale, mentre la grandissima parte delle piccole imprese è stata costretta a chiudere l’attività per decreto. Se ai primi il peso delle tasse continua a rimanere insignificante, ai secondi il carico fiscale ha raggiunto livelli non più sopportabili che il decreto Rilancio è stato in grado di alleviare solo marginalmente. In altre parole: è giunto il momento di introdurre una web tax a livello europeo per far pagare il giusto anche a questi giganti tecnologici”.
E sebbene nel decreto Rilancio siano state prese delle misure di alleggerimento fiscale che interesseranno le nostre piccole imprese, la CGIA rimane molto critica sull’azione del Governo Conte. Dichiara il Segretario della CGIA Renato Mason:
“E’ vero che oltre agli indennizzi diretti, comunque del tutto insufficienti, è stato introdotto anche l’azzeramento dell’acconto e del saldo Irap di giugno, la riproposizione dei 600 euro, la detrazione del 60 per cento degli affitti delle attività che hanno visto crollare di almeno il 50 per cento del fatturato negli ultimi 3 mesi e il taglio delle bollette. Ma tutto questo è ancora insufficiente a colmare la rovinosa caduta del fatturato registrata in questi ultimi mesi da tantissime piccole imprese che, a differenza dei giganti tecnologici, non possiedono la liquidità sufficiente per reggersi in piedi”.
La CGIA, inoltre, rimane molto critica anche con le altre grandi imprese presenti nel nostro Paese. In particolar modo con FCA (Fiat Chrysler Automobiles). Se la notizia fosse confermata , FCA Italy starebbe per ricorrere alle misure introdotte dal decreto liquidità. In altre parole, vorrebbe ottenere un grosso finanziamento avvalendosi delle garanzie statali messe a disposizione da SACE per 6,5 miliardi di euro.
“Speriamo – conclude Zabeo – che alla fine prevalga il buon senso. Sarebbe inaccettabile che un grande gruppo industriale che ha deciso, di spostare, legittitamente, la sede legale nei Paesi Bassi, chiedesse, con la controllata FCA Italy, un finanziamento avvalendosi delle garanzie pubbliche dello Stato che ha, invece, abbandonato. Sarebbe una cosa insopportabile che il Governo italiano non dovrebbe consentire”.
La CGIA, comunque, ricorda che non è stata solo la FCA a lasciare il nostro Paese per trasferirsi in Olanda. Lo hanno fatto anche l’Eni, l’Enel, Luxottica, Illy, Ferrero, Saipem, Telecom Italia, Cementir, etc,.
“Questi grandi gruppi – conclude Mason – non si sono trasferiti per sfruttare le aliquote fiscali ridotte di cui l’Olanda comunque non dispone, ma per i bassissimi prelievi presenti sui dividendi, sui guadagni da cessioni/partecipazioni e sulle royalties. Sarebbe quindi opportuno che anche l’Italia, così come ha fatto la Francia, decidesse di escludere dai contributi statali le società con sedi nei Paesi che offrono una fiscalità di vantaggio”.