di Renato Bona
L’attuale drammatica vicenda della pandemia da Covid 19 ha analoghi precedenti storici, almeno per quanto riguarda il Bellunese, e segnatamente l’Agordino, che ci fanno tornare parecchio indietro nei secoli. C’è un capitolo, intitolato “Calamità”, nel libro (fuori commercio) “Storia breve dell’Agordino”, edito nel 1989 (Tipografia Piave di Belluno), autore lo storico prof. don Ferdinando Tamis (per arricchire con immagini il pregevole volume si è avvalso, dopo le illustrazioni di Augusto Murer, che abbiamo proposto in precedente servizio, e di altri maestri dell’arte pittorica e-o fotografica, stavolta tocca a Giuliano De Rocco ), in cui l’autore scriveva che: “La peste, la fame e la guerra erano il flagello più temuto che si riversasse sulle nostre popolazioni, lasciandovi un ricordo che, nelle future generazioni, si tramutava spesso in narrazioni leggendarie e fantasiose. La moria e le distruzioni, infatti, non potevano certo essere dimenticate, ma: “la carestia, conseguenza di queste calamità, era l’incubo grave per i danni alla vita economica, tanto da coniare il detto: ‘Lonch come l’an de la fam’ per indicare una cosa che non finisce più”. Tamis ricordava quindi che “Nel 1435 l’epidemia infierì crudelmente. E qui bisogna lasciare la parola allo storico bellunese, per comprendere come si sia divulgata nella nostra diocesi la divozione a san Sebastiano, considerato un protettore contro la pestilenza. ‘La peste quest’anno si fece gagliardamente sentire nella città di Belluno, né si haveva per molti mesi potuto ritrovare rimedio alcuno: fin che un giorno del mese di Settembre venuto un Chierico del Contado di Alpago davanti Magdaleno Contarini Podestà in Cividale espose haver in visione veduto un’immagine che li disse: Che se dal commune di Belluno fosse fatto edificare una cappella con un altare in honor di Santi Fabiano et Sebastiano, invocando l’aiuto di questi gloriosi Santi ad esserli intercessori appresso Iddio, cesserebbe la pestilenza… e fu deliberato di costruire l’Altare e la Cappella nel Tempio Catedrale in honor di questi Santi, votandosi li Cittadini di fare le pubbliche processioni, e digiunare la sua vigilia al tempo della sua solennitade… Fu il voto delli Cittadini, esaudito in Cielo, e si vidde manifestamente tal pestilenza cessare: et fu fatto subito edificar l’Altare e istituire la Messa: Che sin a presenti tempi viene con gran devotione esseguito”. Altro ricordo riportato da Tamis: “Il vescovo Pietro Barozzi, durante il suo ministero, fece diverse visite nell’Agordino, ma di particolare importanza ci sembra quella degli anni 1485-86. Poco prima la peste si era fatta gagliardamente sentire per l’Italia e – secondo Piloni – morirono a Venezia più di trentamila persone. Così in altre città: a Belluno si fecero ‘gran provigioni’ per la preservazione della città, essendo il Friuli ‘sospetto di tal contaggio’, ma nel 1482 incominciò a manifestarsi nel Bellunese, specialmente nel territorio di Mel, dove la mortalità fu grande. Il 10 giugno 1485 il vescovo era a Sottoguda, e gli abitanti dichiaravano che qualche anno prima, mentre la pestilenza affliggeva la popolazione di Rocca e Laste, essi avrebbero fatto voto che se ne fossero stati risparmiati, avrebbero costruito nel loro villaggio, o regola, una chiesa a onore dei santi Fabiano, Sebastiano e Rocco, e poiché tutti erano evasi incolumi, si dicevano pronti a costituire la dote di fondazione ed iniziare i lavori. La chiesa veniva consacrata dallo stesso vescovo il 24 settembre dell’anno successivo. Con la erezione della chiesa di Sottoguda, per la prima volta vediamo affermarsi nell’Agordino il culto di San Rocco, che tra la fine del secolo XV e l’inizio del secolo XVI fu uno dei santi più venerati nel mondo cattolico”. Il racconto dello storico agordino ci riportava poi al medico Giovanni Colle il quale “parla della peste che infierì in Agordo nel 1547, e durò due anni, spopolandolo interamente” e precisa che: “Si manifestava con febbre alta, vomito biliare, e delirio, ardente sete, e il quarto giorno portava alla morte; molti venivano colpiti dal carbonchio, con pustole nere, pruriginose. I rimedi erano molteplici, tra questi i salassi, i cauteri, i cataplasmi di vario genere. Come un arcano, veniva somministrata una polvere, ricavata dalla quercia e altre sostanze, diluita nella lisciva dolce ed olio comune”. E una curiosità: “le corna, le unghie, le ossa, il cuoio del camoscio e del capriolo trattati ad alta temperatura e ridotti in cenere, venivano serviti nel brodo stesso degli animali, con grande sollievo degli ammalati…”. Tuttavia “nonostante gli accorgimenti la peste si manifestò in una forma molto grave anche nel 1564 e nel settembre-ottobre morirono 200 e più persone… i morti venivano portati alla sepoltura senza l’accompagnamento del sacerdote e sepolti alla campagna oppure negli orti domestici. Nel solo villaggio di Celat di Vallada morirono 34 persone. E fu in quella occasione che venne decisa l’erezione della chiesa di San Rocco”. Concludeva richiamandosi allo storico Florio Miari che nelle Cronache bellunesi inedite dice che nel 1631 “com’era nei tempi passati accaduto più volte, tornò in questi contorni ad infierire la pestilenza… ma che per sentire parlare ancora di peste bisognerà arrivare alla ‘Falcadina’, nella prima metà del secolo scorso, chiamata così dal luogo dove prima si diffuse, importata da Fiume nel 1790… solo nel 1811 la prefettura di Belluno se ne occupò seriamente… e nell’ottobre 1822 l’imperatore Francesco I ordinò la costruzione di un ospedale a Noach nel comune di La Valle, a spese dello Stato, per curarvi i colpiti dal male e fu nominato direttore Giuseppe Vallenzasca a cui si deve il trattato sulla ‘Falcadina’ pubblicato a Venezia neo 1840 e dai suoi scritti attinsero quanti si occuparono della malattia”.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro di Ferdinando Tamis; Ellery Queen; Pro loco Caviola): lo storico agordino prof. don Ferdinando Tamis; san Rocco con i segni della peste, dipinto da Tommaso Pombioli, sepolto nella chiesa che porta il suo nome, a Venezia; san Fabiano sepolto nelle catacombe di San Callisto a Roma; san Sebastiano, sepolto nella basilica di San Sebastiano fuori le mura a Roma; la chiesa dei santi Fabiano, Sebastiano e Rocco di Sottoguda e quella di San Rocco a Celat di Vallada; la serie di dipinti di Giuliano De Rocco ad illustrare il libro di Tamis: “In cerca di lavoro”, “Solitudine”, “La lettera del babbo lontano”, “Pioggia e neve”, “Il falegname”, “Cronache in chiesa”.