VAL DI ZOLDO Oggi, mercoledì 4 novembre 2020 giorno in cui ricorre il sessantaquattresimo anniversario della rovinosa alluvione del 1966, che provocò molte vittime ed ingenti danni anche in provincia di Belluno, e mentre è ancora presente il pesantissimo bilancio del fenomeno Vaia dell’ottobre di due anni fa, vogliamo ricordare che, a trent’anni dall’evento del 1966, il Comune di Forno di Zoldo e la Comunità montana Cadore, Longaronese, Zoldano, con il contributo di Cariverona ed il patrocinio dell’Istituto culturale di Zoldo, curarono la pubblicazione del libro “L’alluvione del 1966 in Zoldo. Immagini storiche e profili di intervento” (stampa Cierre Grafica di Sommacampagna in provincia di Verona, coordinamento editoriale di Paolo Lazzarin, grafica della Graphotek di Milano e fotografie del 1966 di: Franco Casal, Michele Corazza, Luigi De Fanti, Foto Eddy, Foto Pompanin, Paolo Lazzarin, Angelo Panciera, Arturo Panciera, Dario Pra Floriani). Il sindaco di Forno di Zoldo, che all’epoca era Giacomo Renzo Scussel, nella prefazione evidenziava come “Il 4 novembre 1966 è una data che rimarrà sempre impressa nella memoria degli abitanti di Zoldo: un nubifragio investi tutto il Bellunese con differente intensità e colpì anche Venezia e Firenze. In 48 ore si riversarono sul bacino del Maè 50 milioni di metri cubi d’acqua e lungo gli alvei e i versanti erosi dall’acqua si misero in movimento masse enormi di ghiaia e fango. Le acque trascinarono a valle con veemenza alberi schiantati dal vento e l’effetto combinato del deflusso con repentine alterazioni d’alveo in prossimità di ponti e di confluenze provocò la fuoriuscita delle acque dagli alvei e la rovina di strade, ponti e case”. C’è da aggiungere – sempre col Sindaco Scussel – che fortunatamente il nubifragio non provocò vittime in Zoldo ma i danni materiali furono enormi e ancora oggi il territorio porta i segni di quella catastrofe. Il primo cittadino di forno di Zoldo dava quindi giusto merito gli autori della documentazione fotografica sottolineando che “La raccolta delle immagini più significative scattate durante e immediatamente dopo l’evento, costituiscono la parte emotivamente più coinvolgente di questo libro” e precisava che le poche immagini che testimoniano le fasi di piena sono state scattate con grande tempismo da Angelo Panciera Coatel che ha girato anche alcuni metri di pellicola di rara efficacia testimoniale, mentre gran parte della documentazione dei giorni successivi alla piena è dovuta all’opera di Franco Casal, fotografo di Dozza di Zoldo e di altri cronisti fotografi”. Si soffermava quindi ad esaltare l’attività della comunità zoldana che “con grande determinazione intraprese la ricostruzione appena le acque defluirono, lasciando un campo ingombro di macerie”. Ma…. “L’opera di regimazione idraulica del bacino del Maè non ebbe vita facile. Dopo 20 anni di aspre polemiche e battaglie giudiziarie, lo Stato riconobbe di dover intervenire vigorosamente. Il risultato di questo primo intervento è ora visibile: molte opere di fondovalle sull’asta principale, alcune opere di dosaggio del trasporto solido ben descritte nella prima relazione del libro (“Le briglie a fessura a tutela degli abitati di Forno di Zoldo e Dont devastati dall’alluvione del 1966” di A. Cavinato, A. Fistarol, E. Fornari, G. Piccoli – ndr,) e pochissime opere di difesa dei versanti e dei torrenti minori”. Ancora Scussel: “Il completamento della sistemazione idraulica del bacino del Maè dovrà essere imperniato sulla necessità di mitigare l’erosione idrica e di dosare il trasporto solido, in particolare l’erosione va combattuta con interventi estensivi, graduali, rispettosi della natura, di manutenzione del territorio”. Poi, riferendosi alla seconda relazione (“Interventi di difesa idrogeologica eseguiti dal Servizio Forestale Regionale di Belluno in comune di Forno di Zoldo” di Giuseppe Poletti – ndr.) precisava che la stessa “Vuole testimoniare la volontà e la capacita di intervento del Servizio Forestale della Regione Veneto di affrontare la sistemazione dei dissesti di versante con tecniche di ingegneria naturalistica all’avanguardia nel settore, opere spesso poco appariscenti, ma efficaci”. Concludeva sostenendo che “Merita un’attenzione particolare il breve resoconto dell’alluvione del 1890: un evento ormai lontanissimo nel tempo, ma che il crudo elenco delle vittime rende oggi ancora minaccioso. Quell’evento fu forse la causa scatenante del forte flusso migratorio verso le Americhe di fine secolo. Allora lo Stato non aveva l’organizzazione e le risorse per aiutare gli alluvionati. Oggi le risorse ci sono, si tratta di impiegarle bene”. Il capitolo intitolato “Il nubifragio del 1890” è stato curato dallo zoldano don Floriano Pellegrini il quale, anche traducendo dal latino, riferisce che: “… la descrizione del disastro si trova annotata nei registri parrocchiali di Goima, fatta dal parroco don Arcangelo Gregori, in quelli di Fusine fatta dal pievano don Gio. Batta Belli, e in quelli di Pieve ad opera dell’arciprete don Gio. Maria Casaletti. Un passaggio: “… Erano le 11, quando venne addosso agli abitanti di questa valle, tranquillamente riposanti, una terribile procella sviluppatasi tra i monti San Sebastiano, Moiazza, Civetta, Agnolezza e durò tremenda per mezz’ora. I fulmini erano continui. Il giro delle nubi era vorticoso, non gocce scendevano ma cordicelle di acqua, frequentemente interrotte da grandine i cui grani, appena scesi a terra, si univano insieme per formare una lastra di ghiaccio. I tuoni non lasciavano sentire il suono delle campane. Il fragore era immenso e sembrava annunciare l’ultima rovina!… E venne l’aurora a far vedere il misero stato della valle; un’immensa quantità di ghiaia con grossi massi venuti dal Livinal dal Bus (Moiazza) fu portata dappertutto dai torrenti formatisi sul Duran coprendo i ben coltivati campi. Poi la piena del Moiazza distrusse nel villaggio di Molin due officine, due stalle con animali e fieno, lasciando altri edifici crollati, continuò la devastazione lungo la valle, finché arrivata a Dont distrusse in parte quel paese, asportando e seppellendo con le case anche gli abitanti in numero di 18…”. In realtà, con le acque del Maè che corsero torbide e grosse per 20 giorni, in tutto Zoldo le vittime del nubifragio della notte fra il 29 e il 30 agosto 1890 dovrebbero essere state 23! Come diligentemente annota don Floriano.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “L’alluvione del 1966 in Zoldo”): la copertina della pubblicazione; Col da Molin; gente attonita a Dont; Forno (Barat); altre rovine nel capoluogo comunale; erosione della strada a Soccampo; devastazione a Pont Aut; alla ricerca di qualcosa…; spettacolo da brividi con rovine ovunque.