di RENATO BONA
Se, trattando del libro “Malgari e pascoli. L’alpeggio nella provincia di Belluno”, edito nel 1991 a cura di Daniela Perco (tipolitografia Beato Bernardino di Feltre) per la serie Quaderni, dalla Libreria Pilotto di Feltre ad iniziativa di Comunità montana feltrina e Centro per la documentazione della cultura popolare” in precedente servizio, ci siamo occupati del capitolo curato da Corrado Da Roit: “Delle liti sui pascoli e sull’alpeggio dei bovini a La Valle Agordina”, in questa occasione ci soffermiamo sul saggio di Luciana Palla: “L’uso dei pascoli nelle vicinie di Livinallongo”. L’esordio per ricordare: “L’economia di Livinallongo, finché le risorse fondamentali di vita degli abitanti derivarono da agricoltura e allevamento, fu regolata dall’istituto della vicinia”. Erano 17, estese sul territorio comunale(Pieve, Salesei, Andraz, Castello, Larzonei, Palla-Agai, Corte, Contrin, Cherz, Soraruaz, Arabba, Varda, Vallazza, Ornella, Visinè di Qua, Visinè di Là, Davedino, con confini ben definiti; ognuna si componeva delle famiglie proprietarie di aziende agricole, in genere insediatesi nella località da molte generazioni. Luciana Palla ricorda quindi che fino all’introduzione della legge del 1927 sul riordinamento degli usi civici “con la cui applicazione venne definitivamente negata l’autonomia amministrativa delle vicinie garantita dalla monarchia austriaca fino al 1918, quando Livinallongo venne annesso all’Italia, l’istituzione era proprietaria di buona parte di boschi e pascoli la cui gestione da parte dei ‘vicini’ o ‘consorti’ risultava nei fatti un sostengo notevole all’economia dei piccoli proprietari agricoli: ciascuna famiglia che disponeva individualmente di casa, stalla, campi e prati, aveva cioè il “diritto al fuoco” era comproprietaria con le altre “di un patrimonio comune indiviso costituito da prati, pascoli e boschi nonché dall’insieme dei beni immobili necessari alla vita sociale della piccola Comunità rurale, quali strade, abbeveratoi, acquedotti”. All’interno di ciascuna vicinia vigevano fregole a proposito dei pascoli per far sì che non fossero sfruttati oltre la loro potenzialità, ed ogni famiglia godeva del diritto di legnatico, segativo, rifabbrico. Ancora: oculato era lo sfruttamento e la vendita del legname perché tutti erano consapevoli che dal buon uso di tali risorse dipendeva la sopravvivenza stessa della comunità. Accanto ai boschi vicinali c’erano 45 appezzamenti boschivi chiamati ‘masi’ appartenenti ad alcune famiglie che erano le uniche a poter godere degli utili conseguenti ad uso e-o vendita del legname mentre il diritto di pascolo era esteso a tutti i componenti della vicinia. Con la legge accennata sopra, del 1927, “la proprietà vicinale e masale venne abolita e sostituita da quella comunale, per cui la vicinia rimase sì in vita come istituzione, con le sue usanze ed i suoi regolamenti, ma priva della sua originaria ricchezza di pascoli e boschi e con l’imposizione di tasse comunali per pascolo e legnatico. Immancabile la causa intentata da capi vicinia e ‘masisti’ al Comune, motivata dal fatto che “le terre in oggetto erano proprietà privata collettiva quindi non soggette all’applicazione della legge sugli usi civici”. Una tesi confutata ripetutamente dalla Corte d’appello di Roma e dalla Cassazione; nel 1942 “fu data definitivamente piena ragione al Comune”. Ma… “Nonostante la vicini fosse stata privata della sua ricchezza fondiaria, continuarono però le consuetudini e soprattutto la gestione tradizionale collettiva dei pascoli. Fu mantenuta perciò anche la cura a non spezzettare la proprietà privata ma a conservare pressoché costante il numero dei ‘fuochi’, cosicché non fosse turbato l’equilibrio fino allora esistente fra aziende agricole e sfruttamento delle risorse agro-pastorali”. Da questo principio – spiega opportunamente la Palla – scaturisce l’uso non conosciuto nel resto dell’Agordino e del Cadore di lasciare la proprietà fondiaria al primogenito e di indirizzare gli altri figli ad impararsi un mestiere che avrebbero potuto esercitare nella valle o altrove; l’alternativa era rimanere nella casa paterna alle dipendenze del fratello senza sposarsi”. Di fatto l’azienda agricola mantenne dimensioni medie: dai 5 ai 20 ettari mentre negli altri comuni agordini era difficile trovarne che superassero i 5 ettari. Quanto al bestiame, l’autrice spiega che l’allevamento bovino era quello più diffuso nella valle “perché permetteva un parziale inserimento nell’economia di mercato tramite la vendita di manzi e giovenche e quindi l’acquisto dei generi di prima necessità che non potevano essere prodotti in famiglia”; i vitelli venivano invece per lo più allevati e castrati per farne manzi, le vitelle venivano vendute quando avevano circa tre anni ed erano già gravide. Secondo i dati del censimento del bestiame del 1930 Livinallongo nell’ambito dei 21 comuni della zona agraria dell’Alto Piave (Cadore) in cui era inserito, disponeva di ben 1.837 capi bovini su un totale di 12 mila 729 dell’area considerata; alto soprattutto il numero di manzi: 123 su un totale di 171. Altrettanto rilevanti i dati se confrontati con quelli della zona agraria del Cordevole (Agordino).
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “Malgari e pascoli. L’alpeggio nella provincia di Belluno” curato da Daniela Perco): due momenti Anni ‘60 della tradizionale rassegna annuale del bestiame di San Michele a Livinallongo del Col di Lana; bovini che tornano la sera dal pascolo nella frazione Corte, Anni ‘60 (foto Celestino Vallazza); raccolta del fieno a Livinallongo nell’estate 1940 (foto Celestino Vallazza); ferratura delle mucche che venivano tenute ferme nell’apposita struttura di legno, “travài”, giugno 1960 (foto Teresa Palla); preparazione del burro con la zangola, Anni ‘60 (foto Celestino Vallazza); abitazioni temporanee in legno a malga Ciapèla, Anni ‘40 (foto Elio Migliorini); “scófe”per il deposito del fieno in montagna (foto Elio Migliorini).