di RENATO BONA
BELLUNO Ricercatore ed autore di testi di storia locale, il perito elettrotecnico bellunese (vive nella via Miari) Luigi Rivis, che per sei anni è stato anche insegnante di “impianti elettrici”all’istituto industriale “Segato” (quello dove si era diplomato) è un riconosciuto tecnico con la T maiuscola (è stato fra l’altro responsabile degli impianti idroelettrici Piave-Boite-Maè-Vajont e successivamente vice direttore del Raggruppamento impianti idroelettrici Cordevole-Medio Piave-Cismon-Brenta e negli ultimi anni di lavoro – la pensione è del 1997 – per la Direzione centrale della Produzione idroelettrica dell’Enel di Roma ha svolto vari incarichi di coordinamento su tematiche specialistiche relative alla generazione di energia elettrica) che ha voluto dire la sua ne “La storia idraulica del ‘Grande Vajont’ rievocata da un addetto ai lavori che allora c’era”. Si tratta del pregevole libro con varie ristampe, che ha realizzato nell’agosto 2012 (tipografia Piave, grafica e impaginazione di Davide Capponi) con “Momenti Aics editore” ed è uscito anche in lingua francese nel luglio 2013 e in lingua inglese nell’aprile 2015. Quando, nel 1963, si verificò la catastrofe del Vajont, Rivis, che aveva 31 anni, era fra i tecnici responsabili della centrale di Soverzene che doveva controllare anche l’impianto della diga. Di quella tragica notte ha avuto modo di dire pubblicamente quanto ricorda e cioè che verso le 23 si era avvertito un forte rumore e il paese di Soverzene traballava: “l’onda stava arrivando e con mia moglie siamo usciti di casa: sul piazzale rumori ancora fortissimi e l’acqua che era entrata nella centrale provocando un blackout con il personale delle turbine, che ha rischiato la vita dato che era all’oscuro di cosa stesse succedendo fuori dato che le linee elettriche erano saltate… Abbiano trovato un corpo nudo, mutilato, e quindi un altro, quello di una bambina che aveva solo uno stivaletto rosso al piede… Soverzene fortunatamente si era salvato grazie ad un terrapieno che ha attutito la forza del riflusso d’acqua…”. L’autore ha voluto dedicare il suo lavoro (che riprende con alcune integrazioni una precedente pubblicazione, del 2010, andata esaurita: “Vajont 1963”) ai colleghi e agli altri lavoratori che “quella notte erano sul Vajont a compiere il loro dovere e furono travolti dall’onda”. E in presentazione spiega che nella prima parte espone aspetti tecnici dell’insieme delle opere idrauliche che costituivano il “Grande Vajont” sia l’evolversi degli avvenimenti accaduti prima e dopo la caduta della frana”. Nella seconda rievoca quelle che per diretta esperienza furono le disposizioni avute dalla direzione nei giorni immediatamente precedenti e nelle ultime ore prima della caduta della frana, inerenti l’esercizio della diga e la sicurezza del personale che vi operava”. In apertura, Luigi Rivis scrivendo della diga e degli altri manufatti illustra in altrettanti capitoli: “Il Vajont nel contesto del sistema idroelettrico del Piave”; “Perché si è costruito il ‘Grande Vajont’”; “La costruzione della diga”; “I principali manufatti dell’impianto del Vajont”. Si occupa quindi della frana staccatasi dal monte Toc nei capitoli relativi a: “I primi segnali della frana e i provvedimenti presi”; “La costruzione della galleria di sorpasso frana o by-pass”; “Le prove sul modello idraulico”; “Riprendono gli invasi del bacino del Vajont”; “La situazione idraulica al Vajont il 9 ottobre 1963”; “Come proteggere il personale che operava nella zona della diga”; “La caduta della frana”. Conclude la prima parte del libro con: “Dopo la frana”, articolata nei seguenti capitoli: “La situazione al Vajont dopo la frana”; “L’impianto provvisorio di pompaggio verso Cimolais”; “I lavori definitivi verso Cimolais; “I lavori definitivi verso il Piave per la messa in sicurezza del bacino”; “Il ripristino delle opere per la ripresa idroelettrica”; “La viabilità modificata”; “I tempi di passaggio dell’onda del Vajont a Soverzene”. Ed eccoci alla seconda parte dove Rivis racconta “Come ho vissuto il 9 ottobre” spiegando nel primo capitolo “Perché questa seconda parte” cui fanno seguito: “I giorni precedenti la tragedia”; “Il 9 ottobre a Soverzene”; “Le ultime ore nella cabina comandi del Vajont”; “Quella notte a Soverzene”; “I lavoratori morti in diga e nel cantiere del Vajont”. Da ultimo, prima di “Alcune puntualizzazioni su pubblicazioni di altri”, l’autore richiama “Il dopo 9 ottobre” e la sua personale esperienza “In procura a Belluno” per rendere testimonianza nel pomeriggio del 5 novembre 1963, culminata, dopo ore di attesa, con la richiesta da parte degli interlocutori di sapere “a chi potevano rivolgersi per conoscere il livello dell’acqua nel lago del Vajont al momento della tragedia”. Rivis: “Risposi che non sapevo dove reperire quel dato, ma se si accontentavano del livello delle ore 22 bastava che mi lasciassero fare una telefonata al personale della sala controllo di Soverzene dove, col rapporto giornaliero del giorno 9, avrebbero rilevato quella quota. Se, invece, di quel giorno volevano conoscere non solo i dati idraulici e la sequenza delle manovre eseguite al Vajont ma anche tutto ciò che era relativo al funzionamento degli altri impianti che con il Vajont interagivano, potevo andare a Soverzene a prendere questo rapporto: nel giro di poco più di mezz’ora sarei stato di ritorno”. E aggiunge: “Non mi lasciarono andare da solo ma, accompagnato da due carabinieri in borghese e su una loro macchina, partimmo per Soverzene e nella sala controllo della centrale prelevammo il rapporto del giorno 9 ottobre. Poiché i carabinieri mi dissero che il documento sarebbe stato poi sequestrato, chiesi e ottenni di farne copia fotostatica”. Il libro si chiude con l’appendice in tre parti in cui si ricorda “Come si telefonava con il Vajont”; “La storia della chiesetta presso la diga” e “Cenni sulla storia della frana”. Tutti argomenti, quelli efficacemente proposti e ottimamente sintetizzati da Luigi Rivis, che meriterebbero un servizio ciascuno. Ma… lo spazio è tiranno ed abbiamo inoltre notizia di un’altra sua pubblicazione sempre in tema di Vajont sulla quale saremo lieti di soffermarci più avanti.
NELLE FOTO (salvo diversa indicazione si tratta di riproduzioni da pubblicazioni della Sade e dell’Enel o dal volume “Scritti di Carlo Semenza” o dall’archivio dell’autore): Luigi Rivis; la copertina del suo libro “Grande Vajont”; sequenza della ricostruzione del ponte tubo a valle della diga, eseguita nel 1964; dighe, gallerie e centrali che costituiscono l’impianto idroelettrico Piave-Boite-Maè-Vajont; parte della sala controllo a Soverzene; fase finale della costruzione della diga; varo della trave prefabbricata sopra una luce dello scarico di superficie (Mario Ruol); vista da valle della diga completata; primi segnali della frana; 4 novembre 1960: la zona della frana del marzo 1962 prima della sua caduta e dopo; dintorni della diga completamente distrutti ad eccezione dell’abitato di Casso che è stato salvato per la sua posizione sopraelevata e dalle alte rocce a strapiombo poste davanti (Giuseppe Zanfron); la parte centrale di Longarone prima e dopo la tragedia del 9 ottobre 1963; il cimitero delle vittime a Fortogna (Gianni Olivier); scavo nella galleria e l’attuale tubazione in acciaio che vi è stata posta; atto di acquisizione della polizia giudiziaria del rapporto del 9 ottobre della centrale di Soverzene; facciata dell’antica chiesetta al Colombèr: l’attuale chiesetta del Vajont che all’interno ha una lapide che ricorda i deceduti nella zona della diga; altre fasi di realizzazione della passerella pedonale ultimata il 2 agosto 1964.