Al netto degli interessi sul debito, l’anno scorso la spesa pubblica del nostro Paese è stata pari a quasi 890 miliardi di euro: un importo oltre 4 volte superiore a quanto saremo chiamati a spendere nei prossimi 5 anni con i soldi messi a disposizione dall’Unione europea con il Recovery che, ricordiamo, ammontano a 191,5 miliardi di euro.
Intendiamoci: nessuno mette in discussione l’importanza e l’utilità delle risorse europee che saremo chiamati ad investire nei prossimi anni. Ci mancherebbe altro. Tuttavia, vorremmo che il dibattito che si è aperto in questi ultimi mesi nel Paese sulla necessità di spendere bene e presto queste risorse fosse applicato sempre; visto che, solo nell’ultimo anno, le uscite pubbliche hanno sfiorato gli 890 miliardi di euro.
Una spesa, quella pubblica, che per il 90 per cento circa è di parte corrente e viene utilizzata, in particolar modo, per liquidare gli stipendi dei dipendenti del pubblico impiego, per consentire i consumi della macchina pubblica e per pagare le prestazioni sociali. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.
Ora, affidare tutte le nostre aspettative di crescita alla “riuscita” del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (PNRR) è una cosa estremamente giusta e doverosa; è comunque altrettanto determinante che il Governo Draghi intensifichi l’attenzione anche su come vengono impiegati ogni anno questi 890 miliardi di euro e attivi, in misura più incisiva di quanto è stato fatto fino a ora, un sistema di monitoraggio più attento e oculato.
PNRR: tanti investimenti, ma poca reddittività
Il nostro PNRR è costituito da 235,6 miliardi di euro, di cui 191,5 riconducibili al Recovery Fund, 30,6 a un fondo complementare e gli altri 13,5 miliardi di euro al REACT-EU. Di questi 235,6 miliardi, 52,6 verranno investiti per “progetti in essere”, ovvero già previsti, mentre i restanti 183 andranno a finanziare “nuovi progetti”. Pertanto, nel 2026 la crescita del Pil, anno in cui si concluderà l’azione del Piano, dovrebbe essere più alta di 3,6 punti percentuali rispetto allo scenario che si verificherebbe senza l’effetto degli investimenti aggiuntivi.
Una previsione, quest’ultima, che viene prefigurata nello scenario ottimale, ovvero che gli investimenti vengano spesi in maniera efficiente, che le condizioni monetarie siano favorevoli e che non vi siano ripercussioni negative sul premio del rischio sovrano. Condizioni che, ovviamente, nessuno può confermarci che si verificheranno.
Se, rispetto a quanto riportato, il quadro generale fosse meno ottimistico, il nostro PNRR ipotizza altri 2 scenari: uno medio con una crescita del Pil del 2,7 per cento e uno basso con un incremento dell’1,8 per cento.
Un effetto moltiplicatore del Pil contenuto
Analizzando solo lo scenario ottimale, a fronte di 183 miliardi di investimenti, nel 2026 avremo un aumento strutturale del Pil di poco inferiore ai 70 miliardi, determinando un moltiplicatore del Pil pari a 1,2.
Un risultato non particolarmente esaltante, segnala l’Ufficio studi della CGIA, se si tiene conto che, secondo uno studio della Banca d’Italia, la realizzazione delle opere pubbliche può avere ripercussioni importanti sulla crescita economica di un paese se il moltiplicatore della spesa pubblica per investimenti è compreso tra l’1 e il 21 .
E’ vero che l’1,2 per cento previsto dal Governo Draghi nel PNRR ricadrebbe nella forchetta indicata dalla Banca d’Italia, ma è altrettanto vero che raggiungeremo questo obbiettivo solo se tutto andrà per il verso giusto; cosa che molti osservatori dubitano, vista la cronica inefficienza che caratterizza buona parte della nostra Pubblica Amministrazione, la mole di burocrazia che attanaglia il paese, l’incapacità storica di spendere tutti i fondi europei e i tempi di realizzazione delle opere pubbliche italiane che presentano dei ritardi che non hanno eguali nel resto d’Europa.
Va ricordato, inoltre, che l’Italia non desta una elevata affidabilità in materia di previsioni macro economiche. I dati dell’European Fiscal Board (organo consultivo indipendente della Commissione Europea) che riportiamo più sotto sono impietosi: tra il 2013 e il 2019 siamo il Paese che ha “sbagliato” di più. Un’altra ragione per dubitare che saremo in grado di raggiungere la crescita del Pil del 3,6 per cento e, conseguentemente, disporre di un moltiplicatore dell’1,2.
Previsti 750 nuovi occupati, ma in un anno ne abbiamo già persi 900 mila
Anche sul fronte occupazionale gli effetti del PNRR non saranno particolarmente entusiasmanti. Grazie ai 235,6 miliardi di investimenti, nel 2024-2026 l’occupazione in Italia è destinata ad aumentare di 3,2 punti percentuali che in termini assoluti equivalgono a 750 mila addetti. Una cifra sicuramente importante, anche se va tenuto conto che solo nel primo anno della pandemia abbiamo perso 900 mila posti di lavoro, nonostante sia in vigore per legge il blocco dei licenziamenti. Non osiamo pensare cosa succederà prossimamente, quando quasi sicuramente questa misura verrà eliminata.
Gli errori di previsioni sul Pil: Italia fanalino di coda in UE
Oltre ad avere una spesa pubblica spesso intrisa di sprechi e di sperperi, l’Italia ha un triste primato europeo: facciamo estremamente fatica ad elaborare delle previsioni di crescita economica attendibili. Nell’ultimo rapporto annuale dell’European Fiscal Board, pubblicato nell’ottobre 2020 (quarto rapporto annuale), è riportata un’analisi sulle differenze tra la crescita effettiva del Pil e le proiezioni presentate nei programmi di stabilità e convergenza durante il periodo 2013-2019.
Rispetto ai Paesi dell’Area Euro, l’Italia presenta il risultato più critico: le previsioni di crescita sono risultate essere alte in tutti e 7 gli anni presi in esame (2013-2019). Dopo l’Italia, si posizionano 5 paesi che hanno stimato previsioni più elevate in 5 anni su 7. Essi sono: Belgio, Spagna, Francia, Lettonia e Slovacchia.
Il risultato dell’Italia è altresì critico sul fronte dell’errore medio delle previsioni; in questo rank negativo risultiamo secondi solamente alla Slovenia, con un errore medio annuo di stima pari all’1,3 per cento del Pil nominale; tale discrepanza si traduce in un impatto sul bilancio delle Amministrazioni pubbliche di oltre lo 0,5 per cento del Pil all’anno (in 7 anni circa 60 miliardi di euro sul bilancio della nostra PA).