“Al fotografo De Santi, con cordiale gratitudine per le buone riproduzioni e qualche ‘non spregevole vecchio bianco e nero’”. Così, il compianto prof. Giovanni Angelini (mancato il 16 maggio 1990, per ritornare in Val di Zoldo, dove ha scelto di essere sepolto) firmava la dedica a chi aveva con lui aveva collaborato per realizzare il volume “Pelmo d’altri tempi”, edito nell’ottobre 1987 da Nuovi Sentieri di Bepi Pellegrinon per i tipi della Arti grafiche Tamari di Bologna; in copertina acquerello inedito: “Il Pelmo a Zoppé di Cadore” di J. Gilbert. Il sito “angelini-fondazione.it” ricorda che Giovanni Angelini era nato ad Udine il 4 agosto 1905 e che il padre era primario medico dell’ospedale di quella città. E che la famiglia materna era originaria della Val di Zoldo con il ceppo che dalla fine del 1700 era legato all’arte di scolpire il legno. La madre modellava in creta, aveva studiato all’Accademia veneziana ed aiutava il nonno, lo scultore Valentino Panciera Besarel “che dalla povertà si era fatto casa e bottega sul Canal Grande”. Dopo gli studi classici ad Udine, Giovanni Angelini si era laureato in medicina, nel 1928, a Padova. Quindi servizio militare (7° Reggimento alpini 1929-30; Ospedale da campo per indigeni in Etiopia 1935-37) e a seguire supplenze estive di medici condotti alle quali ha accompagnato una lunga preparazione universitaria (Padova: Istituto di istologia ed embriologia generale, Istituto di patologia speciale medica e metodologia clinica; Amburgo: Institut für Schiffs- und Tropenkrankheiten) fino al 1948. Dal 1937 incaricato dell’insegnamento di Clinica delle malattie tropicali e subtropicali presso l’Università di Padova. Comincia nel 1948 la carriera ospedaliera quale primario medico all’ospedale di Trento, poi a quello di Verona (1954) e a quello di Belluno (1958) dove, a fine servizio (1975) è divenuto primario medico emerito. Socio corrispondente dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di Forno di Zoldo (1948) e di Zoldo Alto (1980); ha ricevuto il Premio San Martino della Città di Belluno (1975); è stato nominato socio onorario della sezione del Cai di Agordo (1984) e di Zoldo (1989) della quale è stato tra i fondatori nel 1966. Si legge quindi che: “Ha imparato ad andare in montagna dai pastori e dai cacciatori, pionieri dell’alpinismo zoldano. In famiglia esisteva già una certa tradizione alpinistica: la madre, poco dopo la costruzione (1892) del Rifugio Venezia, intorno ai 24 anni, sfuggì alla sorveglianza paterna e salì sul Pelmo con la guida di Zoldo Alto Angelo Panciera detto “el Mago” e con un’attrezzatura primordiale: la salita le aveva lasciato una profonda impressione”. Per Giovanni “L’alpinismo vero e proprio cominciò dopo la morte del padre (1922) e durante gli studi universitari. Fu iniziato da Silvio Sperti, compagno di scuola e amico bellunese del fratello Valentino, proveniente da una famiglia di tradizioni alpinistiche”. E veniamo al libro, dedicato “Alla valle che mi ha dato, al mondo, più di ogni altro luogo”, articolato nei seguenti capitoli: “Pelmo in antico”, “Leggende e arte”, “Precursori”, “John Ball”, “Paul Grohmann”, “Via ‘per la Forca Rossa’”, “Via ‘per la Dambra’”, “Salite dei primi anni: 1869-1872”, “Un ventennio: 1873-1892”, “Rifugio Venezia”, “Pelmetto”, “Per la parete Nord verso Forcella Forada”. Riservandoci di tornare su questo splendido lavoro di Angelini, ci soffermiamo nell’occasione sul capitolo “Leggende e arte” dove si legge che “Raccontavano i vecchi che il Pelf (Pelmo) non era stato sempre così aspro di croda nuda, ma nei tempi dei tempi pendii boscosi nel coprivano i fianchi e sulla cima in pace stavano casere e armenti. Un giorno, chi sa per quale tremendo castigo, il Pelf s’era scrollato di dosso quel mantello verde, troppo mite per la sua regalità superba. S’ergeva ora, sul piedestallo di colli ondulati, impetuoso il Sass de Pelf solo e possente dominatore, e le sue immense ‘rovine’ erano precipitate laggiù – ci additavano la conca di Pécol – a sbarrare la valle, seppellendo i paesi. L’acqua del Maé aveva così formato un lago, il ‘mar di Marasón’; i secoli passano e il lago viene colmato dalle piene. Nuovi boschi s’abbarbicano sulle ‘rovine’, ma ancora, scavando in quelle zone, si trovano tronchi enormi abbattuti da enormi pietroni; e sopra Pianàz scavando hanno trovato una campana, la campana vecchia che suonava a San Nicolò di Fusine e che altre rovine, quelle della prima grande guerra, hanno travolto per sempre”. Ancora: “Questa leggenda del Pelf, che ha similitudine con quelle di altre grandi montagne e si collega con fenomeni rovinosi, preistorici e storici, frequenti in montagna, era viva in passato a Zoldo Alto. Traeva origine probabilmente da due grandi scoscendimenti ormai rivestiti dalla vegetazione, scesi dalle pendici occidentali del Pelmo-Pelmetto ad ostruire l’alta valle e a dare origine a caratteristici ripiani”. Poi compaiono le “Madame de Pala Favera” e Giovanni Angelini si chiede: “Ma chi erano?” e risponde: “Signore ricche che avevano la casa a Pécol; avevano lasciato parti prative di territorio di montagna, i così detti ‘Colendìei’ ( ‘Colonnelli’) ad appartenenti a una Regola (o ad un Consorzio di regole di vari villaggi); queste ‘pàrt venivano sorteggiate (per esempio ogni 5 anni a primavera) e distribuite per la falciatura, che di solito si faceva a data fissa; i ‘Colendìei da Pala Favera (c. 1600 m), fonte di lunghe dispute, erano sul pendio occidentale o ‘Baidórs’ (dove ora vi sono attrezzature di risalita per lo sci) e si falciavano il 24 agosto ogni anno. Le stesse ‘Madame’ possedevano anche i ‘Colendièi de Col Torónd’, parimenti lasciati per uso regoliero in Val Granda (sora Soramaè-Pianàz) al Crep de Còl Torónd (1785 m i vecchi del secolo scorso raccontavano di aver visto a Col Torónd ruderi attribuiti alle case delle Madame de Pala Favèra’”. Altra domanda: “E le Bernarde’ chi erano? Da essere ancora ricordate negli enormi pietroni che fanno parte delle tracce della ‘Rovina de Pelf’ a 1600 m in prossimità del ‘Ru de Vido’?”. Così l’autore del libro: “Erano sorelle, molto ricche, di Còi (pare che siano esistite e la loro casa, proprietà di varie famiglie Rizzardini, era una volta una delle più belle tra quelle antiche, ornamento di un villaggio fra i meglio conservati): erano così ricche – si diceva – che non riuscivano a chiudere le loro case dotali piene di roba, pigiandovi sopra con le ginocchia; a tali case dotali (‘banch’) così’ grandi e così piene erano paragonati i macigni trascinati giù dalla ‘Rovina de Pelf’ e che ora hanno nome ‘Banch de le Bernarde’”.
NELLE FOTO (riproduzioni da “Pelmo d’altri tempi” e sito angelini-fondazione.it): il prof. Giovanni Angelini; la copertina del suo splendido libro sul Pelmo col Pelmo e Zoppè di Cadore, acquerello inedito di Gilbert; Pelmo e Pelmetto da sud-ovest, versante di Zoldo Alto; Pecol di Zoldo e il Pelmo d’inverno come era prima che l’incendio del 1961 distruggesse la maggior parte del villaggio; il capitello de “La Crós”fra Maresón e Pianàz; Pian de Zernadói sul sentiero che fiancheggiando la “Rovina de Pelf” raggiunge i “Banch de le Bernarde”; la faccia levigata di uno dei macigni; Il “Banch de le Bernarde”; casa Rizzardini; opera di Gilbert il quale ipotizzava che il Pelmo fosse un soggetto che ricorreva spesso in Tiziano; dipinto di Moretti del 1600 per un ex voto nella chiesa di San Valentino a Maresón: la finestra guarda verso Pelmo e Pelmetto; Zoppè del passato nel disegno di Josiah Gilbert del 1869; acquerello inedito del 1865 o 1868 dello stesso autore; il Pelmo “visto” (1964) da Masi Simonetti; nel 1876 Valentino Besarel scolpì un’immagine di Pianàz col Pelmo, alla sommità della cornice dedicata a Sante Colussi, fondatore di una genealogia di panificatori.