di Renato Bona
BELLUNO Abbiamo già avuto modo di ricordare che dal maggio al novembre del 1994, la Villa Contarini di Piazzola sul Brenta ospitò il tradizionale appuntamento espositivo a cura dell’Associazione Lombardo-Veneto in collaborazione con la Fondazione Girardi con l’intento di “illustrare aspetti e momenti spesso trascurati della storia, delle tradizioni e della ‘civiltà’ veneta nella sua accezione più ampia”. In tale contesto, quell’appuntamento venne dedicato ad uno dei più importanti corsi d’acqua dell’Italia settentrionale: il Piave, o meglio la Piave, da sempre femmina, come ancora usano appellare le popolazioni rivierasche”. La rassegna fu oggetto anche di un sobrio ma pregevolissimo catalogo “Lungo il Piave civiltà di un fiume” sul quale ci siamo ampiamente soffermati recentemente. In questa sede vogliamo sottolineare che la pubblicazione, che venne stampata a cura del Circolo nautico delle Assicurazioni Generali da La Tipografica srl di Venezia nel maggio dello stesso anno, ha dedicato le ultime pagine e diverse immagini, al capitolo “Pietre e chiodi per la Serenissima”. Tra le tradizionali attività produttive e di trasformazione nelle nostre aree montane – si può leggere – si colloca senza dubbio quella estrattiva e di lavorazione del metallo. Viene ricordato che l’Agordino produceva soprattutto rame e vetriolo che trasportato a dorso di mulo fino al Piave, veniva quindi avviato verso Venezia in sovraccarico sulle zattere. Nella Valle di Zoldo vi era invece, attiva fino a pochi decenni or sono, una fiorente “Industria” di trasformazione del ferro, forgiato nelle numerose fucine e”fusinelle” lungo il Maè. Si producevano attrezzi di ogni tipo, chiodi rinomati per la loro qualità ed anche i tipici “rostri” di ferro acciaioso che ornano la prua delle gondole veneziane. Altro argomento, le cave di Castellavazzo. Che erano di pietra calcarea dell’antico Castrum Laebactorum, arroccato su uno sperone roccioso a piccio sul Piave, poco a monte di Longarone, conosciute e sfruttate fin dall’epoca romana, e rimaste ininterrottamente attive fino a pochi anni or sono. Anche la pietra dunque, ridotta nelle pezzature commerciali richieste e spesso lavorata o semi-lavorata in loco “veniva avvallata fino alle rive del fiume e quindi trasferita ai centri di consumo in sovraccarico sulla zattera. E se a Codissago la gran parte della popolazione maschile tradizionalmente si occupava della fluitazione e segagione del legname, a Castellavazzo era da sempre legata appunto all’estrazione e lavorazione della pietra dalle inconfondibili venature biancastre e rosso-brune con la quale “nel corso dei secoli sono stati edificati migliaia di manufatti lungo l’intera valle del Piave; dalle chiese ai campanili, dalle pubbliche fontane ai basamenti, portali e balconi di ville e palazzi”. Risulta che nel 18667 nel territorio della provincia di Belluno erano state censite una novantina di cave dove lavoravano più di 300 uomini. La metà dell’intera produzione stimata un 4 mila metri cubi annui proveniva da quella di Castellavazzo dove, nel secondo dopoguerra erano ancora aperte una ventina di “botteghe da taiapiera”. In conclusione si ricorda che “L’anonima schiera di cavatori e scalpellini dell’antica Pieve di Lavazzo ha trasmesso per generazioni un patrimonio in gran parte ancora fortunatamente intatto, di tecniche e attrezzi forse unico in Europa – sistematicamente raccolto e schedato dal ‘Gruppo Rosso-Bruno’, benemerita locale associazione di volontari – del quale nella mostra ‘Lungo il Piave’ si propone una piccola ma significativa selezione che si confida possa essere di stimolo ed auspicio per gli enti locali competenti nel perseguire in loco la creazione di un Museo permanente della pietra”.
LE FOTO (riproduzioni dal catalogo “Lungo il Piave civiltà di un fiume”): officina per la fabbricazione di chiodi nella Valle di Zoldo; da notare il grande maglio ‘”a testa d’asino” azionato a forza idraulica; tipologie di chiodi e ferramenta prodotti fino al secondo dopoguerra nella valle Zoldana; una fucina ed un’officina metallurgica del XVI secolo, incisioni dell’Agricola; fasi di lavorazione della pietra di Castellavazzo; ecco, proposti in disegno dal decano degli scalpellini bellunesi, Domenico Bettio di Ospitale di Cadore, classe 1919, “impréste” (attrezzi) utilizzate in cava: il “maziòl” (mazzuolo), punte di misure diverse per sbozzare ed appianare, scalpelli per rifilare e per la prima squadratura; trapano a manovella e punte per praticare fori dritti o “a campana”; la lucidatura della pietra, a lavorazione conclusa, viene praticata applicando un amalgama di cere e olio cotto strofinato con pezze di lana; prima sbozzatura con “ponte e maziòl”, eseguita in cava per ridurre le protuberanze ed i dislivelli del pezzo in lavorazione; fasi di realizzazione di una colonna progressivamente ridotta da base quadrata ad ottagonale, quindi a 16 lati, infine smussata mediante bocciardatura; inconsueta rappresentazione plastica settecentesca del “San Marco in figura di leon”; bassorilievo in pietra di Castellavazzo, di probabile lavorazione locale.