A chiederlo nuovamente è la CGIA: per le Pmi il 2021 deve essere “tax free”, l’unica possibilità per consentire a queste attività, sfiancate dagli effetti economici negativi legati alla pandemia, di prendere fiato e riprogrammare la ripresa. Dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo:
“Escludendo le imposte locali, il tax free year italiano costerebbe alle casse dello Stato fino a 28 miliardi di euro. Una cifra spaventosa che, ovviamente, potrebbe essere ridotta consentendo l’azzeramento del peso fiscale solo per le attività con ricavi al di sotto di una certa soglia o sulla base della perdita di fatturato. Anche se il mancato gettito fosse di 28 miliardi di euro, tale importo risulterebbe comunque inferiore agli aiuti erogati direttamente quest’anno al sistema produttivo e che fino ad ora ammontano a circa 30 miliardi. Con il tax free, i piccoli imprenditori sarebbero alleggeriti dal peso di un fisco spesso ingiusto, per un anno vivrebbero con meno ansia, meno stress, più serenità e fiducia. Non solo, ma con 28 miliardi risparmiati metteremmo le basi per far ripartire l’economia del Paese”.
La CGIA fa notare che mai come in questo momento avremmo la necessità di azzerare le imposte per l’ anno venturo.
“Solo con un 2021 tax free e una forte iniezione di liquidità – dichiara il segretario Renato Mason – possiamo aiutare concretamente il nostro tessuto imprenditoriale e soprattutto il mondo delle micro e piccole imprese. Altrimenti, rischiamo una moria senza precedenti che desertificherà tantissime zone produttive e altrettanti centri storici sia di piccole che di grandi città, minando la coesione sociale che è il pilastro su cui si basa l’economia del nostro Paese. Per evitare tutto questo, però, bisogna intervenire rapidamente. Tanti artigiani e piccoli commercianti sono allo stremo, ma possono ancora risollevarsi se l’Esecutivo sarà in grado di dare loro delle risposte in tempi ragionevolmente brevi. Ovvero, consentendogli di cancellare le imposte erariali, di avere una burocrazia meno oppressiva e di disporre di risorse finanziarie sufficienti per superare questa situazione di grave difficoltà”.
In termini di gettito, l’Ufficio studi della CGIA stima che all’erario verrebbero a mancare 28,3 miliardi di euro così suddivisi: 22,7 miliardi di Irpef; 4,2 miliardi di Ires; 779 milioni di imposta sostitutiva versata dalle partite Iva che hanno aderito al regime forfettario e 500 milioni di euro circa di Imu sui capannoni (cat. D) (vedi Tab. 1).
In base alla proposta della CGIA, le attività con meno di 1 milione di euro di fatturato non pagherebbero più le imposte erariali, pur continuando a pagare quelle locali per non mettere in ulteriore difficoltà i Comuni e le Regioni. Questi ultimi, pertanto, continuerebbero a incassare le loro spettanze che ammonterebbero a 3 miliardi di Irap; 2,5 miliardi di Imu; 1,6 miliardi di addizionale regionale Irpef e 610 milioni di euro di addizionale comunale Irpef. Nel complesso, quindi, le Pmi con meno di 1 milione di fatturato l’anno prossimo verrebbero così a versare alle Autonomie locali 7,7 miliardi di euro.
Bisogna semplificare anche il fisco
Oltre ad azzerare le imposte erariali per il 2021, la CGIA invita l’Esecutivo a semplificare il sistema fiscale per le nostre Pmi. Come auspicato nei mesi scorsi anche dai vertici dell’Agenzia delle Entrate, sarebbe necessario eliminare l’attuale sistema degli acconti e dei saldi, consentendo alle aziende di pagare le tasse solo su quanto hanno effettivamente incassato. Un’operazione trasparenza che segnerebbe il passaggio da un prelievo sugli incassi presunti a uno sugli incassi effettivi, eliminando non solo il sistema del saldo e acconto, ma pure la formazione di crediti fiscali e la conseguente attesa, da parte delle aziende, dei rimborsi.
Il contorto meccanismo del saldo/acconto
In Italia il principio di base è che l’artigiano o il piccolo commerciante non paga le tasse solo su ciò che ha dichiarato l’anno precedente, ma anche su quanto guadagna nell’anno corrente, come “acconto” per il pagamento delle tasse che andranno versate nell’anno seguente. Ovvero, va a credito (o a debito) con il fisco per l’annualità che deve ancora venire. In linea di massima, questo sistema prevede che il versamento delle imposte all’erario avvenga in due tranche: la prima tra fine giugno e inizio luglio, la seconda entro la fine del mese di novembre.
L’ammontare degli acconti è pari al 100 per cento dell’imposta dovuta per l’anno precedente e viene solitamente versato in due rate a giugno e a novembre. Entrambe sono uguali per “i soggetti ISA” (cioè coloro i quali svolgono attività economiche per le quali sono stati elaborati gli Indici Sintetici di Affidabilità), mentre per gli altri contribuenti, la prima rata corrisponde al 40 per cento del dovuto, e la seconda al 60 per cento.
Questo meccanismo genera una situazione di scarsa trasparenza e sovente crea problemi finanziari, perché è difficile per l’imprenditore prevedere quanto dovrà pagare. La situazione, infatti, è equilibrata solo quando non vi sono evidenti differenze di reddito tra un anno e l’altro, ma quando non è così le cose si complicano.
Nel caso in cui il reddito risulti essere più basso di quello registrato l’anno prima, l’imprenditore va a credito, in quanto gli acconti di imposta sono stati calcolati su un reddito più elevato. Se, invece, si verifica un forte incremento di reddito, la situazione si capovolge. Il contribuente va a debito e nella scadenza di giugno è chiamato a pagare un saldo di imposta molto impegnativo, perché gli acconti calcolati l’anno prima erano sottostimati. Questo spiega la ragione per cui il fisco non premia la crescita di reddito, ma, semmai, la penalizza.