«Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli Italiani». Dopo quanto accaduto negli ultimi giorni la famosa frase pronunciata da Massimo D’Azeglio, all’indomani dell’Unità d’Italia, potrebbe essere aggiornata così: «Abbiamo (ri)fatto l’Italia, ora dobbiamo sempre fare gli italiani». Sì, perché, dopo più di 150 anni, siamo di nuovo daccapo, ovvero l’ostacolo più spinoso per realizzare una vera unità rimane sempre il nostro popolo. Segnali positivi, però, si sono notati negli ultimi giorni. Gli azzurri di Roberto Mancini, Matteo Berrettini, la squadra tricolore di atletica leggera ai vertici del campionato europeo, idem per le loro colleghe della nazionale di softball (è la 12ma volta!): tutto ciò sembra aver compattato la Nazione accendendo la fiamma del senso di appartenenza che è colorato d’azzurro o di bianco-rosso-verde. Lo hanno sottolineato bene Mattarella e Draghi dicendo che lo sport è davvero un collante che funziona e a fargli da colonna sonora è il “Canto degli Italiani” che il presidente Ciampi sdoganò qualche anno fa quando ancora chi lo cantava veniva guardato con aria di scherno e di fastidio. Oggi non più, può echeggiare sugli spalti dello stadio come per le contrade del Paese, nelle cerimonie pubbliche e nelle feste. Era ora! Passata la “sbornia mediatica” dell’Europeo di calcio e dell’erba di Wimbledon, rimane però il problema degli italiani, cosa di antica data secondo, per l’appunto, D’Azeglio. Allora ci avevano provato, senza successo, Garibaldi, Cavour, Verdi e altri condottieri, politici e intellettuali, ma oggi non illudiamoci di avercela fatta, perché non dobbiamo farci ingannare dal delirio sportivo tuttora nell’aria. Sono bastati, infatti, l’acume tattico di Roberto Mancini, le parate di Gigio Donnarumma e le staffilate di Matteo Berrettini ed ecco liberato il “gregge” per le contrade d’Italia. Poco male, se non ci fosse una conseguenza incombente sul piano sanitario. Sappiamo che non siamo fuori dal tunnel della pandemia, ma nel frattempo risale la curva dei contagi e fra una decina di giorni vedremo il risultato di un non autorizzato “libera tutti”, soprattutto fra la popolazione più giovane. Se il bianco di qualche Regione potrebbe rischiare di cambiare colore, lo spauracchio di una pericolosa marcia indietro non può non farci riflettere. Non sarebbe la prima volta, vedi estate 2020… In questo, come in altri sensi, sta il problema degli italiani ancora una volta incapaci di trasformare un momento di vittoria collettiva e di orgoglio nazionale in una condizione strutturale che faccia fare a loro quel salto di qualità non tanto nascosto nella famosa frase di D’Azeglio. Ora all’orizzonte immediato c’è Tokio dove si spera di guadagnare un corposo medagliere che potrebbe, se non gestito con intelligenza, riaprire ancora di più le porte al tifo sportivo in libera uscita, senza pensare che il Covid rimane in agguato. È vero, siamo una Nazione “giovane”, ma abbiamo avuto oltre 150 anni per diventare “adulti” ed è pur vero, di contro, che l’antica democrazia inglese in questi giorni non ha dato prova di ineccepibile maturità, ovvero non è esempio da imitare. È vero anche che non siamo più un’”espressione geografica”, secondo il vero significato inteso dal cancelliere austriaco Klemens von Metternich nel 1847. Siamo invece una Nazione dotata di lingua, cultura e umanesimo ammirati in tutto il mondo e capace di mettere in campo un nuovo Rinascimento post pandemia, come è stato riconosciuto da tante autorità europee. Allora, è proprio una “missione impossibile” fare degli italiani un popolo unito, responsabile, ricco di senso civico e non un’armata Brancaleone che alla prima occasione rompe gli schemi dei doveri per far dilagare solo quello dei diritti? In altri Paesi c’è chi fa anche peggio? Certo, ma preoccupiamoci di casa nostra. Poi, quando saremo popolo davvero unito, non solo per cantare il buon Mameli a squarciagola dietro ad un pallone, forse potremo dare lezioni agli altri. Quelle stesse lezioni, però, che oggi non accettiamo da alcuno (v. Londra…), sia ben chiaro!
*****