di RENATO BONA
Anna Maria Claut è l’autrice del capitolo “Abiti e storia tra ‘800 e ‘900” del libro “Ricordando. Storia e immagini del comune di Sedico”, edito nel marzo del 1986, tipografia Piave, dall’Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali (guidato dal prof. don Sergio Sacco) ad iniziativa di Comune e Biblioteca civica. La Claut esordisce affermando: “Come non esistono vicende storiche specifiche del nostro comune, così non esiste nemmeno un modo di vestire tipico, ma la storia e l’evoluzione del nostro costume si riallacciano a quelle del costume contadino feltrino e bellunese. Alcune modifiche più recenti, come il passaggio dai pantaloni al ginocchio a quelli lunghi, o l’uso della cravatta, sono frutto di contatti ripetuti con gente diversa, dovuti per gli uomini all’emigrazione all’estero e per le donne al servizio come balie nelle grandi città. Un contributo alla trasformazione del costume lo diede anche l’introduzione di nuovi tessuti (cotonina, velluti, sete) e la scomparsa delle tele (canapa, lino, lana) di produzione locale”. L’autrice pone quindi con particolare riferimento agli abiti festivi l’interrogativo: come vestivano i nostri nonni? E risponde così’: “il costume festivo, cucito nei tessuti migliori e con la presenza di elementi decorativi, rappresentava il frutto di lavoro accurato e doveva durare una vita intera; la confezione di questi abiti, soprattutto di alcuni capi maschili, veniva affidata ad un sarto, quella dell’abito femminile, invece, era compito della donna stessa ed era un saggio delle sue abilità. A lei era affidata anche la confezione di camicie, calze, biancheria, abiti per bambini ed abiti da lavoro, che non erano diversi nella foggia, ma solo nei tessuti, spesso riciclati, e nei particolari, più semplici”. Rammenta quindi che “Ancora nei primi decenni del ‘900 gli abiti venivano fatti in casa; ci si rivolgeva alla sarta per l’abito da sposa. I sarti erano rari; da una piccola indagine risulta che nella zona esisteva un’abilissima sarta da uomo a Bribano con 4-5 lavoranti e 3 macchine da cucire, e sarte da donna a Belluno e Santa Giustina. Le famiglie benestanti facevano venire le sarte in casa a tagliare e cucire gli abiti nuovi per il cambio di stagione¸ generalmente ci si faceva il vestito nuovo per Pasqua”. Abiti maschili. Per la Claut erano pochi pezzi, ben definiti ed uniforni: pantaloni lunghi “bragói” che inizialmente, come per la cravatta, erano indossati da chi era stato all’estero; di colore nero o marrone, di panno o mezzalana per la festa, di tela grezza a righe per i giorni di lavoro. Una caratteristica era la “patela” che sul davanti copriva l’abbottonatura. Camicia ampia e lunga, di canapa o di casalina, bianca o colorata, collo a fascetta e piegoline cucite a mano che davano un certo tono… Poi vennero le camicie con colletti arrotondati o a punta, staccabili e dunque lavabili ed amidabili. Gli uomini non portavano mutande ed era la camicia a farne le funzioni. Sopra la camicia un gilé di lana o mezzalana di colore scuro, bottoni rivestiti di stoffa e mezzo colletto. Sulla sinistra il gilé aveva un taschino per l’orologio fissato con una catena d’argento ad una delle asole. Capo piuttosto raro la giacca, che era considerata un lusso e comunque indossata solo nelle grandi occasioni (e talvolta prestata a chi non la possedeva, per funerali o matrimoni). Era prevalentemente nera come i pantaloni. Nelle giornate lavorative d’obbligo le “peze da pié” per avvolgere i piedi prima di infilarli nelle “galoze”; in uso anche calzettoni di lana colorata, confezionati a ferri come per le calze delle donne. Per l’inverno chi poteva si riparava dal freddo con una mantella, nera o blu scuro. Abiti femminili. La gonna o “còtòla” di canapa, cotone o mezzalana a seconda della stagione: ampia, con molti teli, arricciata in vita, lunga fin quasi alla caviglia; l’unica apertura sul fianco consentiva di inserire la mano nella tasca dove c’erano le chiavi della dispensa, “còrnoi”, bocconi di pane; sopra la gonna la “traversa” (grembiule); quella colorata era considerata un lusso. Bustino stretto in vita, accollato, con ornamenti e nastri di velluto, sotto uno scialle triangolare, con le frange. Pure per la biancheria personale si utilizzavano tessuti diversi a seconda delle disponibilità economiche e della stagione: bombasina, pelle d’uovo, canapa, flanella. Camicia ornata con pizzi, talvolta al posto dei bottoni laccetti di stoffa; maniche lunghe con pizzi e merletti; le donne ricche possedevano una camicia da giorno ed una da notte, le meno abbienti utilizzavano notte e dì il medesimo capo. La “cotol de sot”, cioè la sottoveste, era una gonna molto ampia, bianca come l’altra biancheria intima, arricciata in vita, lunga fin sotto al ginocchio, con pizzi e volants ricamati. I mutandoni, di cotone, erano rari; i bustini, cioè i reggiseno di oggi, ed i “matiné”, giacchine di piquet di cotone ricamate con ampio collo e maniche lunghe; calze di cotone o lana, lavorate a ferri e sostenute da elastici o fettucce. Ancora l’autrice a rammentare che non tutte le donne possedevano un bel paio di scarpe, che a volte ricevevano in regalo dal “novìz”, lo sposo, nel giorno delle nozze. Di solito usavano “scarpét” di tela o velluto con suola di tela grezza o stracci, zoccoli e “galoze”. Facevano parte del costume della festa anche gli aghi di filigrana d’oro e d’argento a forma di fiore, infilati nei capelli raccolti; gli aghi erano regalo del promesso sposo per “impegnar” la ragazza che così diventava “noviza”. Il giorno delle nozze. La donna indossava l’abito migliore: camicia bianca con sbuffi alle braccia e polsini; sopra il “crosát” panciotto di vari colori; ampia sottana con pieghe in fondo, spesso turchina o nera; davanti il “gramál” annodato dietro; ai piedi le contadine mettevamo “zopele” con suole di legno e tomaia in pelle. Sui capelli strettamente legati un fazzoletto e sulle spalle uno scialle dagli splendidi colori; ornamenti come collane di corallo e di palline dorate, pendagli ed orecchini. Lo sposo: abito nero e candida camicia di lino, sfoggia la catena d’oro o d’argento dell’orologio, ricevuta in dono dalla sposa o acquistata all’estero. I matrimoni venivano celebrati di lunedì o mercoledì. Conclusione del capitolo con un accenno della Claut alla dote, “tessuta e cucita a mano con tanta cura per anni: biancheria, vesti, calze, fazzoletti, grembiuli variopinti…” di cui propone un campione: 1 grembiule, 6 fazzoletti, le scarpe, 6 paia di calze, 3 gonnelle, 1 di panno, 4 camicie di “stopolina”, 6 camicie di “canevela”, 2 camicie di tela fine, 1 camiciotto da ogni dì, 1 camiciotto nuovo della festa, 2 grembiuli di stoffa di tela grossa, 1 scatoletta di merli, 1 cintura, 1 letto, 1 panca in cui riporre le masserizie, gli abiti del matrimonio, i regali. Manca in questa lista la biancheria per la casa (tovaglie), mentre la voce “letto” comprende i materassi. Che potevano essere di piuma o di crine, o di “foiòle”, o addirittura di lana, le lenzuola e la coperta imbottita (di piuma o di lana)…
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro”Ricordando. Storia e immagini del comune di Sedico”): fine ‘800 eleganza dell’abito e originalità dei gioielli; le camicie erano ancora sprovviste di colletto… fisso; abito da festa; famiglia contadina in abiti festivi ad inizio Novecento; sposi del 1898; giovane ricercato nella camicia e… nei baffi; bellissima immagine da inviare al marito assente; foto-ricordo per la famiglia da Trento dove erano a servizio; nel costume locale; fantasia di righe in verticale…; qualcuno, oltre al colletto, aggiungeva un ricco “papillon”; bel gruppo di ragazze; ancora belle signore; l’abito sembra anticipare le confezioni in serie dei nostri giorni; in abito da festa; si sfoggia il gioiello di famiglia; un pizzo prezioso; elaborate acconciature…