di RENATO BONA
Erano le 22 del 15 aprile 1701 “la grande frana si era staccata improvvisamente trascinando ‘li pradi chiamati Nadera e Tamer e Rova’. Più a valle altre frane erano precipitate dal ripido fianco sinistro ostruendo il corso d’acqua, creando dei bacini e determinando un rallentamento con conseguente accumulo dell’enorme massa di materiale; poi, subitanea, era avvenuta la tracimazione e l’immensa quantità d’acqua e fango aveva trovato sfogo, libera di abbattersi lungo la ripida valle, per travolgere violentemente tutto ciò che ostacolava il suo corso”. Quanto precede si legge nel libro di Corrado. Da Roit “I resti di San Michiél” edito nell’aprile 2001 con la tipografia Beato Bernardino di Feltre, e contenente notizie dettagliate sulla vecchia chiesa distrutta dalla Boa trecento anni prima. Il giorno dopo – prosegue nel ricordo Da Roit – alle prime luci dell’alba, tra il fango e le macerie delle case, di segherie, fucine, folerie e molini, fra grandi e piccini mancavano all’appello 36 persone; subito ‘cominciarono a cerchar li morti’ alcuni dei quali era risultato difficile o impossibile identificare, e già il giorno seguente ai primi cadaveri recuperati veniva data sepoltura nel cimitero di San Michiél. L’autore aveva aperto il capitolo intitolato “Aprile 1701: il disastro” richiamando la nevicata, tardiva e straordinariamente abbondante, che “era iniziata l’8 di aprile e alle quota più alte la neve aveva continuato a cadere, e ad accumularsi, per vari giorni: era tempo di disgelo e cosi ‘non potendo più soportar il tereno’, migliaia di rigagnoli e ruscelli ingrossarono a dismisura i torrenti tanto che ‘l’acqua chiamatta Missiaga era così grande e torbida che rendeva quasi maravilgia a ciascuno che la mirava’”. Purtroppo – è sempre Da Roit a ricordare – “Non era finita: infatti fra il 27 e il 28 aprile ‘… a ore tre di notte si sentirono un teribilissimo terremoto il quale ha fato tremar tutte le case e cominciarono a scampar in su per li monti vicini parché sentivano di continuo la bova a corere con gran rumore e urli spaventevoli che si credevano che si subisase non tutta la Valle ma tutto il mondo… Giunta poi la matina del mercordì incominciarono a guardare in verso la Chiesa di San Michiéle Arcangelo ma non se la vedeva per il gran caligo che era… non si sentiva a suonar le Avemarie… Venuta poi una ora di giorno e cesata la nebia guardarono verso la Chiesa ma che videro… rimasta fra le rovine vittima e spiantata del tutto insieme con la capella di Loretto e le due chaloneghe e la casa del monego, tutto dispiantato e sepolto in quella materia…’”. Aggiungeva quindi che “In quella tragica notte persero la vita altre cinque persone, fra cui il reverendo don Desiderio Taio; miglior sorte toccò all’altro sacerdote, don Bartolomeo Marchioni che, rimasto intrappolato e ferito, fu trasportato in una casa di Mattén dove per lungo tempo ebbe ospitalità e cure”. Va detto che nel nuovo cimitero improvvisato per accogliere le vittime della Boa, furono sepolte complessivamente 65 persone fino al gennaio 1703 “quando venne inaugurato il nuovo Cimitero della nuova Chiesa che ora viene fabricata…”. Ci avviamo a conclusione ricordando, sempre dal libro di Da Roit che ne riferisce in appendice, “I reperti” vale a dire ciò che rimane dopo 300 anni della vecchia chiesa di san Michiél”. Il più noto fra quelli recuperati tra macerie e fango è sicuramente la statua della Madonna di Loreto, effigie simbolo della Boa. Scolpita ad inizio ‘600 o forse subito dopo la metà del secolo, fu inizialmente collocata sull’altare della chiesetta di legname costruita dopo il disastro e, ultimata la costruzione della nuova chiesa, venne posta su un altare laterale fino al 1717; per far posto ad una ‘pala nuova’ la statua lasciò la chiesa per essere affidata alla devozione degli abitanti di Fadés che, in quel villaggio seppero custodirla, attorniata da due vecchi ‘anzoli’ in un ‘capitèl’ che era stato costruito nella piazzetta centrale. Va precisato che demolito il vecchio ‘capitèl’ la statua, che nel frattempo era stata privata dei due ‘anzoli’, trovò collocazione in un altariolo posto sulla facciata di una casa nel centro dell’abitato di Fadés. Altri recuperi: quello di vecchi libri che ancora oggi sono conservati nell’archivio parrocchiale di La Valle Agordina: “Instrumento della chiesa”, quattro “Libro dei conti”, il “Catastico de decime sopra campi”, “Libro della Schola”, “Instrumentario delle Anime della valle”, “Registro dei battezzati”, “Registro dei morti”. Poi: la “tina”, recipiente in pietra che serviva come contenitore dell’olio necessario per l’illuminazione della chiesa. Alcuni preziosi in argento: calice del 1687, pisside del 1676, navicella del 1660, oli santi del ‘500, secchiello per l’acqua santa in bronzo del ‘500, piatti per elemosine in ottone del ‘500, piatto da parata pure in ottone. Rinvenuti nel corso di scavi: l’architrave dell’ingresso principale; pezzi di intonaco con resti di affreschi; due pietre lavorate, entrambe scolpite soltanto su due lati che pro0babilmente facevano parte dello stipite di una porta della vecchia chiesa. Infine il battistero: scolpito in pietra dai fratelli Francesco e Nicolò Mattei nel 1695 e benedetto l’8 dicembre dello stesso anno, se ne sono recuperati i pezzi che, assemblati, ricostruiscono quasi completamente il piedestallo.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “I resti di San Michiél”, siti Wikipedia e laboalistolade.it): la copertina del libro di Da Roit; particolare della chiesa di San Michele Arcangelo di La Valle Agordina sorta dopo la rovina della precedente a causa della “Boa”; interno dell’edificio sacro; anno 1947: la “Madòna néigra con i due anzoli nel capitèl” sulla piazza di Fades; immagine attuale della “Madòna néigra”; vecchi libri salvati dal disastro; la tina o “pria da l’oio”; l’argenteria recuperata fra le macerie; le vecchie fondamenta di San Michiél; “scalini del sagrà”; architrave della porta principale; due pietre lavorate scolpite su due lati; piedistallo e colonnina di sostegno del Battistero; il luogo dove quasi certamente sorgeva l’antica chiesa.