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di Mirko Mezzacasa &Alice Prete 2010
UNO
La finale, l’ultimo atto. Sessanta minuti giocati allo spasimo che assegnano un triangolino tricolore chiamato scudetto, amichevolmente “Lo Scudo” per i tifosi più caldi, “La Storia” per i dirigenti che in nella squadra hanno investito denaro, lacrime, notti rubate alla famiglia e speranze. La finale, l’ultimo atto dopo cinquanta partite giocate tra la fine dell’estate e le prime giornate di una primavera che tarda ad arrivare. Cinquanta notti tra lo stadio in riva al lago e gli impianti delle confinanti regioni a statuto speciale (Trentino, Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), più ricche, anche per questo più attrezzate in fatto di giocatori. Per l’Alleghe arrivarci non è stato facile. Chi ci ha creduto ha dovuto insistere, inghiottire bocconi amari per intere stagioni, ma sapeva che prima o poi l’appuntamento con “La storia” sarebbe finalmente arrivato. La finale, l’ultimo atto. E’ in programma tra poche ore, all’imbrunire. Chi vincerà alzerà al cielo quel trofeo, a quel cielo che si colorerà forse di bianco-rosso. Chi “salirà” nel cielo, per un anno intero vivrà quel sogno cullato una vita.
La festa per la vittoria nei quarti di finale e in semifinale, pur vissuta intensamente, non è nulla al confronto di quella notte…e di quelle successive… fino all’inizio di un’altra stagione. Fino al prossimo finale di un’altra estate. Arriveranno questa sera gli avversari del Cortina. Gli “odiati” cugini. In quei cinque anni trascorsi in serie B hanno purgato gli errori del passato, anche se oggi vantano 16 scudetti. In quei 5 anni all’Alleghe è mancato l’avversario migliore, quello degli sfottò, della grande attesa. Ma oggi sono tornati più forti di prima, perché anche loro giocheranno per la storia, in una partita secca, in sessanta minuti di sudore, lacrime e sangue. Anche loro sognano un altro titolo, pur tuttavia quel numero, il numero 17 (molto meglio 16 più 1) li spaventa, niente nello sport è peggio della superstizione. Vorrebbero che il cielo questa sera si colorasse di bianco-celeste, vorrebbero poter girare per le strade del paese urlando la loro gioia e facendo tremare i sassi del magnifico Civetta cercando di farli rotolare fino ai piedi della loro Tofana. “Tutto in una notte. L’Alleghe alla ricerca del rispetto”, titolava stamane il quotidiano più importante della provincia bellunese.
“Se non avete il biglietto non mettetivi in viaggio, la vostra radio vi permetterà comunque di seguire la “festa”, sessanta minuti prima dell’ingaggio iniziale saremo in diretta e con l’ausilio della tecnologia in centro a Belluno, su grande schermo, saranno proiettate le immagini dell’evento”, la radio locale da ore trasmette questo spot, con una cadenza precisa: ogni 15 minuti e tutto rende l’atmosfera incandescente.
DUE
La finale, l’ultimo atto, porta con se storie diverse. Il giocatore più giovane, che dopo una trafila nelle giovanili cerca il momento di gloria che vorrebbe condividere con l’amico più caro, quel papà che per anni lo ha portato da uno stadio all’altro e che da poco è partito per l’ultima trasferta…da quella non si ritorna più. Lo straniero che Alleghe lo conosce da pochi mesi, ma è il portiere, la colonna della squadra, l’ultimo baluardo a difesa di un primato. L’uomo su cui fare riferimento, sempre. Il tifoso, quello che ogni fine settimana perde la voce diventando il settimo giocatore, quello che di storie da raccontare ne ha tante, ma non quella più importante. Non ancora. Non fino a questa notte almeno. Il radiocronista, lo speaker di campo, l’addetto al ghiaccio e all’impianto di refrigerazione, il figlio del medico ed anche lei…che vogliamo immaginare seduta su una stella a guardare verso il basso mentre accarezza quella sciarpa che ha portato con sé e che ricorda una giovinezza di feste, in attesa di una notte, quella notte, l’appuntamento con la storia.
TRE
Acqua come terreno di gioco. Acqua solida. Ghiacciata in questo caso dove pratichi uno sport basato sulla velocità, la tecnica, la forza, l’equilibrio, il senso della posizione; ma ciò che conta la testa: è facile perdere fiducia, ma la fiducia si allena, si visualizza il percorso di gara, si rigiocano le partite a memoria, sforzandosi di astrarre gli errori, di scomporli, di trovare una logica. L’hockey è uno sport mentale. “Ogni volta che entro in quello stadio, ad Alleghe, ritrovo le stesse sensazioni di sempre, da 27 anni: un miscuglio di qualcosa che ti prende allo stomaco, l’aria di gara che trasuda dalla pareti, dagli spalti. Il formicolio parte dalla testa e passando dal cuore arriva alle mani, le pupille si dilatano, il respiro diventa, a tratti, incerto”. Calma. Respira. Non sei tu pronto allo sparo. E’ “solo” una partita di Hockey… “La cosa che piu mi colpisce è la gente. Il pubblico che pretende, che incita, che vuole la sua vittoria. Non sei tu, atleta, nella tua prestazione di gara: siamo noi. Tu e noi. Insieme costruiamo la finale, quella partita, ogni volta, anche questa sera. Soprattutto questa sera”. Urla, grida, sudore, sguardi, fremiti, quasi tanti piccoli orgasmi. Un cronometro che avanza, a tratti si ferma, mai impensierito dalle negazioni del pubblico. Una gara che non è di cinque giocatori più uno in campo, ma centinaia di cuori che battono, piedi che pestano, lacrime che scendono a rigare le guance, mai nascoste da fazzoletti. Al derby Alleghe Cortina si piange di fronte alla sconfitta.
QUATTRO
E’ uno dei giocatori più giovani. Il fratello in quella squadra c’è da tempo, da prima del matrimonio, da prima del primo figlio, lui a poco più di tre anni era già sul ghiaccio con pattini al piede e girello per tenerlo in piedi. Li guardo passeggiare assieme prima della partita. “Chissà cosa si racconteranno. Chissà quale sarà il pensiero che rivolgeranno al loro papà”. Da tempo penso alle lacrime di una sera di un dopo partita del più giovane, del più piccolo, del più indifeso pur giocando lo sport più maschio. Lacrime azzurre scese da due occhi ancora più azzurri. Lacrime di fine partita, contestatorie, arrabbiate, mescolate da lacrime immerse nel dolore di una perdita . Arrabbiate anch’esse. Lacrime cariche di incomprensioni, che vorrebbero dire, ma non sanno se possono, o fino a che punto. Lacrime che dichiarano il desiderio di esistere, di combattere, di poter e dover giocare la partita fino in fondo…ogni “partita”. Lacrime che trasudano il senso di appartenenza al proprio paese, al proprio cognome, alla propria squadra. Lacrime che vogliono difendere, proteggere, che sperano un giorno diventare di gioia, perché vittoriose. Lacrime viste, condivise, abbracciate; mai infierite dal giornalista, dal fotografo, dal cameramen. Lacrime che scenderanno anche questa sera, comunque vada. Nel segno della partita, dello sport, nel ricordo di quel padre che solo il cielo sa quanto avrebbe voluto non mancare a questo appuntamento.
Quel babbo per anni ha girato gli stadi con i figli lasciando a casa la moglie. Per decenni ha atteso una finale. La finale sua e della sua famiglia, quella sì anche della moglie… Il più piccolo, con accanto il fratellone, questa sera giocherà anche per lui. Solo al termine, fuori dall’arena, potrà farsi mille domande, soprattutto se l’esito non è stato positivo, ma l’unica alla quale deve dare una risposta sarà: “Ho dato, oggi, il meglio di me stesso?” A forza di domandarsi questo, i giocatori dell’Alleghe il massimo lo danno davvero. E quando l’ hockeysta arriva a dire a sé stesso che ha dato il meglio di sé, allora giunge puntuale la serenità.
A volte le lacrime. Quella stessa serenità che è tipica di un artista quando, posato lo strumento, si rende conto che la sua opera è completa. Quella sera il più piccolo dei due aveva dato il meglio di sé; non solo come atleta, ma anche come uomo. Davanti alle sue lacrime la telecamera è stata abbassata. Ma lui ha voluto che si vedessero. Lacrime serene, anche se dolorose. Con orgoglio, fierezza, le ha asciugate ed ha alzato gli occhi. Come solo un figlio guarda fiero suo padre.
CINQUE
Quel giocatore parte da una metropoli, solitamente oltre oceano e, raggiunge un paesino con poco più di 1000 anime, ma che vanta un Club in serie A, la massima serie Nazionale. Già questo meriterebbe lo scudetto. Lo straniero ad Alleghe ci rimane una stagione. Forse due. Oppure fino al termine della carriera perché il legame che si crea con la gente di montagna è unico. Giro per lo stadio e guardo negli occhi la biondina che ha appena acquistato il suo biglietto. Mi parla del “suo” straniero. “Io sono attratta dal portiere. Ho un debole per quell’uomo con la maschera”. And what’s wrong with that? “Nessuna lo fa apposta nel sentirsi attratta, specialmente se ad attrarre è un tono di voce accattivante o un modo di fare seducente. Un tono di voce accattivante…certo la pronuncia canadese fa sempre il suo effetto; ho avvertito il fascino dello straniero. Il tentativo di interazione con una cultura diversa, quella italiana, quella alleghese” Un modo di fare seducente…Avete presente quel gesto? Lo ripete ad ogni partita: la borraccia, che solo lui ha, abbracciata tra le maglie delle porta, dietro di lui. Compagna fedele di tutto il tempo di gioco. Con fare indifferente lo ripete ogni volta, quel movimento. La prende, la apre, fa scivolare il capo indietro, con un movimento veloce, quasi violento.
Almeno il tentativo è quello, perché immobilizzato dalla struttura non riesce. La fa scivolare tra la griglia del casco. Beve. Degluttisce. Prende solo due sorsi nel lasso di tempo che ha a disposizione. Non c’è tempo, sembra non ce ne sia mai abbastanza. Poi la rigetta al suo posto. Di nuovo tra la rete, quasi la arrotola, che non cada dentro la porta. Con fare indifferente, come se nessuno lo notasse, come se nessuno lo stesse guardando. Come se il mondo in quel momento fosse solo lui e la sua acqua. Lui e il suo momento di concentrazione per staccarsi dal gioco, dallo stress della partita. Il portiere dell’Alleghe! L’estremo difensore, sul cui casco, come una spada di Damocle, oscillano, oltre che alle proprie, tutte le emozioni del gruppo.
Un ruolo che deve proteggersi dal sentirsi ” il più responsabile “, prevenendo la paura, gli eccessi di aggressività, le assenze di concentrazione, la vergogna di una leggerezza. Mentre beve dalla sua borraccia, mette in pratica quelle strategie efficaci per rivivere lo stato di grazia necessario, l’idealizzazione del “tutto sta andando bene”, per riprendersi la sicurezza e l’autostima, le motivazioni individuali e della squadra. Ricarica quella molla istintuale che gli potrebbe far compiere il “miracolo”, quando e se sarà necessario. E’ un seduttore. Con abile inganno, sta in campo con il suo personale modo di fare e di essere, che diventa relazione con l’avversario, e il pubblico. Una presenza davanti alla porta che sollecita curiosità e accende l’interesse, non solo per la sua maestria di gioco, per il progetto di vittoria.
SEI
Guardo in alto, verso il soffitto dello stadio che ancora nasconde il colore del cielo. Guardo su e vedo quella scatola di vetro, c’è sempre qualcuno: come degli animali in gabbia. Solitamente sono in due. Fiati e voci, un miscuglio di fili, cavi, due sedie, un bancone di legno impiallacciato dove scorrono dita in cerca di pulsanti, qualche cuffia appoggiata, microfoni e, una stufetta elettrica appoggiata a terra. Posso immaginare che quella fonte di calore questa sera non servirà e non perché la primavera è alle porte… In quel puro stato di caos, dopo aver tolto giacche e cappotti, dopo aver appoggiato thermos di cioccolata, qualche panino, si accenderanno le frequenze di Radio Più, la radio locale, quella che da sempre segue passo passo le gesta degli alleghesi. Che non ha mai commentato uno scudetto, che si è accontentata di un titolo di Lega Alpina in uno stadio straniero. Che non è la stessa cosa dello “Scudo”. Un programma che nasce un po’ come nascono tutti i programmi radio, che parte sicuramente da un amore sviscerato per la musica ma più ancora dall’instancabile voglia di intrattenere i radio ascoltatori su una realtà sportiva, quella del campionato di hockey. Le informazioni: le parole del cronista. Lui, il mediatore tra la vivacità delle azioni, le emozioni e sensazioni del pubblico. Una voce carnale che affonda le proprie radici nei valori primordiali su cui dovrebbe poggiare la comunicazione, sulla esaltazione dei brividi e dei sentimenti, che si densa in un modo di condurre carismatico, acceso, a volte violento. Tum Tum Tum lo senti? E’ il suo cuore, a volte se avvicini l’orecchio alla radio lo puoi sentire; un cuore che ama l’hockey e i suoi giocatori, il team, perché lui è proprio un tifoso sfegatato, maledettamente corretto, che sa mediare la passione per lo sport alla professionalità giornalistica.
Capace di rigirarsi nel letto una notte intera dopo la sconfitta. Ma la verità è un’altro paio di maniche. Perché cosa succederà realmente li dentro, nella gabbia di vetro, dietro a quel microfono, lo sanno veramente in pochi. Tre tempi di azioni di gioco. Ma prima di partire ci sarà lo studio delle squadre, delle linee, la lettura dei numeri dei giocatori, la prova della pronuncia perfetta dei nomi, gli ovvi commenti a sfondo sessuale sulla presenza scenica degli atleti, quasi il cronista fosse stato li, in spogliatoio con loro, fino a pochi minuti prima della partita, con il righello in mano. Anche gli arbitri riceveranno i loro commenti, contraddittori, provocatori, il più delle volte non riportabili. L’analisi del pubblico: le donne presenti riceveranno come sempre la giusta attenzione, come solo un maschio può fare. La solita battuta d’obbligo sulla gara in atto, sulla caccia al giocatore straniero da parte delle ragazze italiane.
Quasi questo fosse una carta di credito fatto di muscoli con una stecca da hockey in mano. Ma un minuto dopo tutto si farà serio: entreranno i giocatori per il riscaldamento, inizierà la musica: le scelte del deejay, un mix scelto e dosato con le indicazioni degli stessi giocatori. Inizierà la partita. Le azioni di gioco si susseguiranno incalzanti quasi a seguire la verve della radiocronaca. Gli sguardi correranno da un lato all’altro del ghiaccio, a volte il vetro di quella cabina incastrata nel punto più alto dello stadio, sembrerà rompersi dalla foga con cui il cronista si scaglierà addosso al malcapitato che oscura la visuale di gioco quando si alza in piedi dal suo posto a sedere. Poi finirà…le strette di mano dei giocatori…E mentre la festa per qualcuno inizierà si chiuderanno le luci dello stadio. Ma la gabbia di vetro resterà accesa ancora per un po’. Inizierà il racconto della storia, scritto, parlato, mai inventato perché la storia non s’inventa. E lui piangerà. Anche lui ha qualcuno lassù che da piccolo lo seguiva e lo incitava a seguire quella squadra, tirare fuori la voce.
SETTE
Eccolo. E’ arrivato. Entra allo stadio tra i primi, incolla alle pareti i suoi striscioni, quelli del cuore. Maglione pesante, sotto magliettina, canottiera…petto. Perché la temperatura salirà, magliette e maglioni voleranno e rimarrà con quel petto tutto nudo, in piedi più in alto possibile con la mani al cielo, perché quel cielo si colorerà di bianco-rosso. Qui Elja mi sentite? Vi ricordate quella storia? La storia di quella spedizione alpinistica femminile sovietica degli anni ’70. Dovevano attraversare da est a ovest il Pik Lenin, una delle alte montagne del Pamir. Dal campo base si puntavano i cannocchiali sulla montagna e, alla radio venivano dettati ordini e informazioni. Si registrava su nastro la cronaca dell’ascesa. I giorni passavano, tutto sembrava andare per il meglio, finché il meccanismo s’inceppò. Una fine drammatica, vissuta addirittura con colpa. “Abbiamo provato, ma non abbiamo potuto.Vi prego, scusateci….”, dissero Elja e Galina, nel collegamento radio. Quella parole delle due donne, la fine di una spedizione di sette componenti.
Quella parole, di morte, per sempre su un nastro registrato. Una brutta storia. Ma ora ve ne racconto io una di bella…. in cui un nastro di cassetta musicale non è stato testimone di morte ma veicolo di vita; lo sport in questione non è l’alpinismo dei settemila metri, ma l’hockey su ghiaccio. Il vero tifoso, quello che questa sera finirà per mettersi a petto nudo è il protagonista della storia. E’ uno di quelli che hanno dentro il fuoco, che si può solo invidiare come si invidiano quelli che sono felici perché hanno imparato a dare tutti se stessi alla propria innamorata. Un uomo che sull’onda del sentimento ha anche cercato di cavalcarla quell’emozione, di esserci dentro. Non si sa perché, chissà per come, ma i guantoni i pattini, gambali e stecca da portiere sono finiti appesi al chiodo. Un’infanzia amara scandita da due grandi amori: per il Milan e per l’Alleghe Hockey, passioni complementari e affidabili. Per loro lui c’era sempre. Anche quella volta che per vedere la partita di hockey segna un mancato rientro sotto naya…o in quelle tante volte che poi per tornare a casa doveva fare l’autostop… da Varese in Lombardia. Anche quella volta. Quella maledetta volta in cui vinse il Milan. Il post partita è diventato un nugolo di polvere e di ferro attorcigliato. Puzza di olio bruciato finito nel sangue. E’ bastato un attimo e tre paracarri….tre pietre dure che sono diventate tempo: giorni, settimane, mesi di buio, nemmeno spezzato da una risposta, neanche quella istintiva. E che fare adesso…rimaneva solo quella passione sviscerata dentro quel corpo, no?.
Questa è la nostra bella storia risollevata da un nastro di musicassetta……la storia di Nicola, la cui vita in pochi attimi diventa una frase come “Altro da fare non c’e…se non aspettare”. Perchè così avevano detto i medici: “Fategli ascoltare quello che gli piace….e chissà che possa servire…” Certo. aspettare. Allora aspettiamo. Mentre si aspettava che Nicola si risvegliasse, si era creato anche un certo scompiglio nella giovane radio Più agordina, che tirava le redini dell’informazione: tutti volevano sapere le condizioni di salute del fedelissimo, inceppando i palinsesti. La gente chiedeva, s’informava, si dispiaceva, ma qualcuno anche faceva, come quel cronista che gli portava in ospedale le cronache della sua passione: musicassette con nastri registrati delle partite di hockey, che allora come oggi erano rigorosamente di “parte”. Finchè un bel giorno quell’amore sviscerato l’ha salvato. Il tifoso più burbero, ma anche quello più buono, ce l’ha fatta. Allora c’è stato anche il momento in cui i giocatori hanno fatto. Si sono impegnati per un tifoso con una piccola cosa diventata grande per Nicola. Una piccola cosa per un tifoso che tanto ha fatto per l’Alleghe.Vi posso assicurare che non capita tanto spesso che ci si ricordi di chi ci mette tanto cuore, dovrebbe capitare anche in altri momenti, non solo quando potrebbe essere l’ultima cosa che fai per una persona sospesa tra la vita e la morte.
OTTO
Sono tutti fuori incollati per bene alle pareti e non potranno mai essere spazzati dal vento o finiti dalla polvere. Hanno il significato di una bandiera. Manca poco. La finale inizierà, i giocatori guarderanno ancora sotto alla curva già in festa e non potranno non leggere quei messaggi: Gegè C’è, Vasco per sempre, Curva Ferro…Sabry Presente. Anche lei questa sera “Lassù tra le stelle griderà, soffrirà e poi festeggerà con noi”. Sabri, proprio quella Sabri del lenzuolo che sventola: un lenzuolo bianco macchiato a lettere rosse. E’ facile arrivare alla similitudine: il bianco di un sorriso di una ragazza di 24 anni e il rosso del sangue, di una lamiera accartocciata contro a un Tir, pochi anni fa, alla vigilia di un playoff. Semplicemente una similitudine. Perchè che altro puoi dire? “Quello che si prova non si può spiegare qui. Indietro non si torna, non si può tornare giù Quando ormai si vola non si può cadere più” C’è poco da dire , molto da raccontare di quella ragazzina che urlava dalla sponde dello stadio la sua rabbia mischiata a quella contro gli avversari. Un caschetto biondo che incorniciava un sorriso più grande di lei, un sorriso che racchiudeva piccoli e grandi sogni ma semplicemente quello più importante di essere vivi e di essere lì perchè si amava l’hockey, e si amava la squadra dell’Alleghe. Due mani che si attorcigliano veloci, quasi in pensiero per il mondo, mai in pensiero per te stessa. Un soffio di vento tra i capelli e via a vivere al massimo, anche quando il massimo forse non è giusto. Semplicemente una ragazza gentile
NOVE
Il mio papà è il più forte di tutti. E’ abbastanza alto e magro. Lui ha i capelli. Ha gli occhi chiari. Ha la bocca normale e il naso normale. Non ha sempre voglia di scherzare, è allegro certe volte e mi sta ad ascoltare quando gli racconto le mie storie o quando gli devo chiedere delle cose di hockey. Io non ho ancora deciso se da grande farò il dottore o il giocatore di hockey, ma quasi è meglio il giocatore di hockey. Perché mi sembra che ci sono sempre tante belle signorine a vedere le partite. Ma non so ancora veramente, perché forse farò il lavoro del mio papà, così divento come lui. A mio papà piace sempre guardare la partita di hockey, ci va sempre, ogni volta che gioca l’Alleghe qui….e anche là. Qualche volta mi porta allo stadio a vedere i miei giocatori preferiti ma non mi diverto tanto, perché non ci sono tanti bambini per giocare e le signorine guardano solo i giocatori. Il suo lavoro è molto impegnativo perché deve curare tutti i giocatori che si fanno male. Questo capita spesso . Praticamente a tutte le partite. Quindi lavora tantissimissimo. Se i giocatori dell’Alleghe giocherebbero meglio e si farebbero meno male il mio papa non lavorerebbe cosi tanto. Mi piace molto fare il tifo e gridare tutte quelle cose brutte che gridano i grandi tipo: oooooooampezzana che tuuuuttttta bianco rossa vai vestita…… e poi non me la ricordo più. Anzi adesso che mi ricordo qualcuno mi mette sempre le mani nelle orecchie e non riesco mai a sentire la fine della canzone che cantano quelli che una volta si sono messi anche a petto nudo. Col freddo che c’è perché c’è troppissimo ghiaccio.
Io poi dicoche se i miei giocatori di hockey preferiti non fossero bianco rossi, io non credo farei più il tifo per loro. Se fossero bianco celesti, ad esempio, a me farebbero proprio schifo. lo cambierei squadra se loro fossero veramente bianco celesti e non tornerei più a abitare a Alleghe. I bianco celesti a me piacerebbe aiutarli perché non sono tanto forti ma non posso perché non so cosa fare.Se uno non è forte secondo me non ci puoi fare niente e stop. I bianco celesti non sono tanto cattivi spero. Io non vorrei essere cattivo con loro. Anche se devo dire la verità come mi dice sempre il mio papà di dire, io, se i miei giocatori preferiti però fossero veramente bianco celesti non saprei veramente più cosa fare. Non li riconoscerei più come veri giocatori di hockey. lo non voglio hockeisti così nella mia squadra. A parte tutto per fortuna, se un giocatore bianco celeste scivolerà nel mio stadio questa sera di finale, e tipo batte la testa e gli esce il sangue bianco rosso dal naso, il mio papà correrà subito sopra il ghiaccio con le scarpe, cioè senza pattini. Non cadrà, non cade mai. Porterà aiuto anche a quel giocatore di Cortina… Io so poi che lui è il papa più bravo di tutti i papà, e sono sicuro che pattina più veloce anche di qualche giocatore Gli voglio tanto bene al mio papà. E se vinciamo la finale ancora di più.
DIECI
La cavalca come fosse un cavallo da domare. E’ importante il suo lavoro. Gira nell’area di gioco, ma non è un rodeo. Il suo compito preparare la pista, levigare il ghiaccio, renderlo lucido, senza graffi, quasi uno specchio. Gli piace girare la sua macchina, sentirsi osservato da almeno 5000 occhi. Non sbaglia, ogni curva sente l’incitamento del pubblico, il trascorrere dei minuti. Manca poco al via e lui sa che un buco nel ghiaccio, una piccola imperfezione potrebbe compromettere l’azione. “E speriamo che le balaustre resistano, che il plexiglass non si rompa. Come quella volta. Quella maledetta sera che si ruppe in due e ci vollero 43 minuti per riparare il guasto. Centoventi secondi più tardi e sarebbe stata sconfitta a tavolino”. La macchina esce…i giocatori entrano. Le luci aumentano d’intensità, le urla del pubblico coprono la musica… ADESSO TOCCA A TE Escono dallo spogliatoio, barbe lunghe perché non la tagliano da un mese, per scaramanzia da quando è inizito il cammino vero la finale. Indossano le vecchie maglie, graffiate sul numero, lercie di sangue per quella famosa steccata in pieno volto, strappata sulla manica.
Ma la divisa non si cambia. I ragazzi lo sanno, una volta in finale il “grazie comunque vada non è accettato”. Il pubblico è convinto che andrà. Si respira uno strano ottimismo questa sera. Ha quasi un odore che si confonde con il profumo di primavera che scende dai canaloni ormai privi di neve. Settantacinque stagioni…imperniate di pessimismo e prive di un qualsiasi successo importante. Questa sera si può cambiare il corso degli eventi. I ragazzi lo sanno, lo sentono, lo temono. Sapranno portare il peso di una vittoria? La stagione volge al termine, tra sessanta minuti si scriverà il finale. Per la parte introduttiva ci hanno pensato i giornalisti alto atesini, sei mei fa titolando a caratteri cubitali “Alleghe da finale”.
Qualcuno assegnava già lo scudetto agli alleghesi. I soliti esagerati…esagerati come la Marmolada. Ragazzi…dateci dentro, sul ghiaccio d’intende perchè a guardarvi c’è un presidente, che da 75 anni è della squadra: prima tifoso, poi giocare, quindi dirigente, oggi alla massima carica, ma ancora non ha vinto nulla che lo proietti nella storia. Non manca nemmeno il vice, dentro questa squadra da 40 anni, legato all’hockey anche per professione e questo rende ancora più intrigante l’affetto per voi. La finale è iniziata, una provincia sportiva è presente all’appuntamento con la storia.
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