di Renato Bona
Per la collana Vecchie cartoline, l’editore Bepi Pellegrinon della Nuovi Sentieri, nel 1981 diede alle stampe con Arti grafiche Tamari di Bologna (collaborazioni di Eronda Graphic Design e fotoselezioni di Monticelli di Padova) il ragguardevole libro “Un saluto dal Cadore” affidando Al giornalista Fiorello Zangrando (mio primo caposervizio a Il Gazzettino dove proseguii la mia carriera di giornalista iniziata nell’estate del 1963 nella redazione de Il Resto del Carlino) l’incarico di stendere testo e commento per le foto della raccolta Benito Pagnussat. Zangrando esordiva scrivendo: “Sarebbe bello, ma occorrerebbe essere accademici con la feluca e dotati di vocabolario difficile e aristocratico, indagare su come si è formata l’immagine che oggi si ha di un territorio. Mettiamo il Cadore. Così come ce lo immaginiamo adesso, che volere o no siamo bombardati dai media, ne siamo condizionati e contagiati. E allora noi viviamo di stereotipi. Chi li ha assemblati? Certo, l’avvento della stampa a grande tiratura, in una parola ciò che è stato prodotto dalla lavorazione giornalistica. Ma, da cento anni a questa parte anche la fotografia e le cartoline, e poi il cinema e la televisione. Con la necessità dell’immediatezza e della sintesi, hanno offerto un gioco di proposte, diffuse dal meccanismo della moltiplicazione del prototipo. E del suo messaggio”. Prendeva quindi in considerazione proprio la fotografia ed i suoi derivati per “raccontare qualcosa che somiglia ad una storia che vuole costituire anche la prova che la nostra gente, nei vari settori dell’attività umana, è stata di un’iniziativa e di una capacità che possono dirsi esemplari. Invenzioni e trovate sono sempre entrate nei confini della piccola patria e vi hanno trovato un’applicazione consistente per opera di personaggi ingegnosi”. L’auotore ricordava quindi che la fotografia è stata inventata da Nicéèphon Nièpce e Luois Jacques Mandé Daguerre nel terzo decennio dell’Ottocento. Dopo che la scoperta fu dal secondo perfezionata, dilettanti locali e professionisti venuti d’oltralpe utilizzarono il dagherrotipo a Roma, dove la meraviglia aveva più che altrove destato interesse: il principe Giulio Cesare Rospigliosi, i francesi Perraud e Victor Prévost, il padovano Jacopo Caneva (del quale è rimasta celebre una fotografia del tempio di Vesta che risale al 1847), il sacerdote Antonio D’Alessandri, Tommaso Cuccioni, Giuseppe Felici, Giacomo Anderson e via via moltissimi altri sono i nomi dei primissimi fotografi italiani contenuti nel ‘flash’ che batte questa macchina per scrivere”. Quindi la domanda di Fiorello Zangrando (cadorino di Perarolo): “E in Cadore?”. Con la risposta: “Vi fu introdotta (la fotografia – ndr.) come invenzione e come artigianato di realizzazione e di riproduzione, da Giacomo e Cesare Riva di Calalzo, l’uno nato il 1818 e morto il 1912, l’altro che visse tra il 1829 e il 1913… Essi allestirono un laboratorio a Calalzo che correva l’anno di grazia (verosimilmente) 1861. Erano passati pochi anni dall’invenzione e pochissimi anche dal momenti in cui fu possibile apprezzarne le risorse di sfruttamento in senso commerciale. I due fratelli, in un periodo compreso tra gli anni1857 e 1859, si recarono a Vienna per apprendere la nuova tecnica-arte (argenti, bromuro, collodio, non so…). Giacomo s’interessava maggiormente alla parte ottica e chimica, mentre Cesare si perfezionava nell’estro del ritocco, in quel tempo assai importante”. A Vienna – prosegue il racconto – “i due bravi calaltini acquistarono anche un sufficiente numero di strumenti per fotografia, non dimenticando di irrobustire il bagaglio delle loro cognizioni. Copiarono in quaderni scritti con grafia minutissima e regolare tutte le regole tecniche ed artistiche trovate nelle pubblicazioni specializzate. Il nipote di Giacomo ricordava benissimo, vent’anni fa, quando per primo m’interessavo i queste cose, di avere egli stesso utilizzato questi manuali compilati con sapiente eclettismo”. Nel 1861 – e qui ci fermiamo assicurando che torneremo sull’argomento – verosimilmente i due tornarono al paese e vi allestirono gabinetto di ripresa e laboratorio di sviluppo e stampa. Il primo aveva sede dove attualmente sorge il caffè della cooperativa. Era sistemato al primo piano e vi si accedeva per una stretta scala di legno. Il secondo era nella casa Riva, dietro la piazza. Peccato che il magazzino delle lastre, preziosissimo oggi, sia stato distrutto in un incendio scoppiato nel 1912…”.
NELLE FOTO (archivio Renato Bona e riproduzioni dal libro “Un saluto dal Cadore”): l’autore del libro, il giornalista Fiorello Zangrando; l’editore, Bepi Pellegrinon di Nuovi Sentierti; la copertina della pubblicazione; giovane “addobbata” col costume cadorino, ma non solo (foto Pompeo Breveglieri, come quelle che seguono); Ospitale in una vecchia cartolina; Rivalgo, borgo di operai contornato da molte segherie: il terziario qui fruttifica; il Cidolo (ponte-saracinesca per raccogliere taglie e travi da inoltrare verso la bassa e da spedire anche in Oriente) è stato eliminato e troppo tardi ci si è ricordati della sua importanza anche storica; casa di la Costa disposte lungo l’asse di un rivo che è fontana corrente buona per tutti gli usi; Perarolo dei tempi andati, dotato di alberghi di tutto rispetto come quello intitolato a Sant’Anna; prima della salita della Cavallera si cambiano i tiri di cavallo e ci si ristora; Sant’Alipio dove Antonio Caccianiga ambientò un romanzo che ha avuto qualche fortuna; una caserma e la chiesa arcidiaconale fanno la parte del leone in questa panoramica di Pieve; la veduta di Pieve prospettata verso il Picco di Mezzodì; ricordo di un convegno ciclistico (autore ignoto); cartolina di un padre che manda saluti e baci in famiglia con la veduta di Piazza Tiziano (Breveglieri)