di RENATO BONA
Davvero una bella lezione di storia della fotografia in Cadore quella che il mio primo capo redazione a Il Gazzettino nonché amico caro, Fiorello Zangrando, ha firmato nel libro “Un saluto dal Cadore”, edito nel 1981 con Arti Grafiche di Bologna da Nuovi Sentieri dell’altro amico, Bepi Pellegrinon, in collaborazione con Eronda Graphic Design e Monticelli di Padova per le fotoselezioni, commentando le vecchie cartoline della raccolta di Benito Pagnussat. Ponendosi la domanda: “E in Cadore?”, Zangrando ci spiega che “La fotografia, come invenzione e come artigianato di realizzazione e di riproduzione, vi fu introdotta da Giacomo e Cesare Riva di Calalzo, l’uno nato il 1818 e morto il 1912, l’altro che visse tra il 1829 ed il 1913”. Erano i tempi in cui non esistevano produzioni in serie di materiali sensibili per la fotografia. Toccava costruirseli: e forse in questo, più che non nello stesso fotografare, consistevano il lustro e l’orgoglio della ditta”. Sottolineava poi che: “la carta sensibile su cui la stampa si eseguiva mediante la luce solare, era cosparsa d’uno strato di allumina. Le lastre di vetro, pel negativo, erano spalmate d’una emulsione al collodio, ma ben presto apparve preferibile sostituirvi il bromuro d’argento. Ricavavano questo metallo da vecchie monete e da altri oggetti comperati per poco dalla gente del paese. Nel laboratorio dietro la piazza, sopra un improvvisato crogiolo, lo fondevano e lo colavano sulle lastre. Addetta alla fusione (vera custode del fuoco, come una vestale) era la moglie di Giacomo, Caterina”. Aggiungeva quindi che “Ogni soggetto era buono da fotografare, per i Riva. Non si specializzarono in un genere: fecero ritratti e paesaggi, avvenimenti e scenette, sebbene preferissero soggetti di caccia e di montagna. E in ogni settore eccelsero. Nel paesaggio è rimasta celebre una veduta di Calalzo, eseguita intorno al ’70, equilibrata come un quadro, perfetta e pure morbidissima nel contrasto dei toni. Ma – e qui concludeva lo specifico discorso – “molte altre vedute composero i Riva, in tutto il Cadore – le chiese e i cidoli, i campi e le carrozze – in Carnia e nello Zoldano dove si recavano ogni due o tre anni, a turno, su richiesta di rivenditori e di clienti”. A questo punto, partendo da Lozzo di Cadore, presentiamo alcune delle immagini che impreziosiscono il libro di Pellegrinon, Zangrando e Pagnussat: la prima ha questa didascalia: “Lozzo spazia lontano. Eccolo con lo sfondo della vallata del Piave, le sue case solide e ben costruite, con l’uso intenso della pietra. Pare impossibile, ma ciascuno di questi villaggi cadorini finisce per assumere un volto, per essere identificabile”. Segue quella per cui Fiorello Zangrando scrive questa dicitura: “Musatti, Fanton, Chiggiato e tanti altri nomi famosi di alpinisti, siglano questa veduta del rifugio Tiziano alle Marmarole, pubblicata dal berlinese Hermann. Sono i tempi eroici dell’alpinismo, di un alpinismo possibile, come probabilmente scriverebbe ancor oggi il mio amico Giuseppe Pellegrinon”. Terza foto, quella di “Lozzo di Cadore – Via alla piazza” così descritta: “Lozzo è uno dei paesi che hanno nei loro annali più antiche radici. Qui i romani, quelli di duemila anni fa, hanno lasciato cospicui segni della loro civiltà. Il borgo sorge sotto un lastrone che si sbriciola, ma presenta caratteristiche architettoniche di tutto rispetto. E’ quasi signorile”. Segue “Un ricordo da Lozzo di Cadore” con l’immagine che è accostata a questo commento: “Certo che non può competere, quanto a bellezza dell’ambiente, con Pieve o con San Vito, con Sappada o con Auronzo, con Cortina o Misurina. Ma anche Lozzo vuole lanciare il suo messaggio e i tratti sono costituiti dal santuario di Loreto, dal monumento ai caduti, da uno sguardo sul Tudaio”. Andiamo avanti e leggiamo accanto alla quarta immagine: “Per passare il Piave, occorre superare una forra di dimensioni rispettabili. Il tragitto per Pelos, e poi su su per gli altri borghi è assicurato da un ponte provvisorio. Vale forse la pena di notare come esso sia costruito seguendo un disegno ardito e regole d’ottima carpenteria”. E siamo dunque a Pelos di cui l’autore scrive: “… La distanza del paesaggio rispetto a quello del giorno d’oggi è davvero enorme. Soprattutto perché l’edilizia vi è molto contenuta. Era il momento in cui la montagna si spopolava, o comunque manteneva un equilibrato peso demografico”. Proseguendo si arriva alla fotografia di “La bella chiesa monumentale di Sant’Orsola a Vigo, che ne va giustamente fiero, come dimostra la cornice di popolo che le sta ai lati, Dentro, un ciclo di affreschi vecchissimi e preziosi, una specie di ‘fumetto’ una ‘biblia pauperum’, la storia edificante di un grande momento di religiosità”. Altra foto, altra didascalia, questa: “Laggio: in quest’immagine, appare in tutta la sua eleganza. Certo che le case sembrano tutte eguali, con finestre piccole e allineate, inserite in cubi e parallelepipedi senza dimensioni fantasiose. Eppure danno la dimostrazione di una razionalità. Al resto pensano i monti”. Siamo così giunti a Lorenzago di Cadore per il quale viene proposta innanzi tutto la cartolina intitolata “Una stella alpina” con Zangrando autore di questa dicitura: “E poi ditemi se non è davvero simpatica questa composizione così ‘kitsch’ di provincia. Il panorama rimpicciolito dà l’idea del paese, Lorenzago, e basta così. Ma dove la mettiamo l’improbabile raccoglitrice di fieno, modella d’occasione buona per i foresti? Quei furbi di cartolinai!”. Restiamo in zona con la foto (P. Breveglieri) datata 14.8.908 accostata alla dicitura che dice: “Potere temporale e potere spirituale equamente divisi, nella piazza di Lorenzago. Sulla sinistra il municipio, in mezzo il campanile. Due simboli, oltreché due edifici. E sono, però, costruzioni enormi, monumentali. Sembrano quasi sovrastare quegli abitanti formiche che stanno in piazza”. Non manca la cartolina con una casa rustica, così commentata: “Qui si torna alla testimonianza impagabile. Beato Daguerre, beati i suoi continuatori. Questa casa rustica col poggiolo lungo ma già imbastardita da successive manipolazioni. Una specie di relitto vagante in un mare forza nove, dominato dall’incrociatore del palazzo con stipiti di pietra”. Cui segue quella per la quale Zangrando scrive: “Ma un saluto da Lorenzago può venire anche da un’inquadratura tutto sommato banale come questa, Giosuè Carducci aveva detto che è aprica. Qui l’obiettivo la rende un modesto supporto. Quella macchia nera sulla destra… e sullo sfondo la villa, e a destra la vetta del campanile…”. Ultima foto (ancora Breveglieri) di questo servizio quella dedicata alla riproduzione di “Credòn della valle del Cridola m. 2581, viste dalla strada della Mauria (Lorenzago)” a proposito della quale il giornalista-scrittore (cadorino di Perarolo) commenta: “Ah, torniamo all’aria aperta, alla visione del grande canale che porta al Cridola. La bicicletta in secondo piano è forse quella del fotografo. Sicuramente i due ragazzini che guardano verso di lui sono un paio di ragazzi miserandi, costretti a lavorare alla faccia del bello”.