L’approssimarsi dell’anniversario della catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963 (1910 vittime di cui ben 1458 del comune di Longarone, le altre di Castellavazzo, pure in provincia di Belluno, quindi di Erto e di Casso in provincia di Pordenone) è l’occasione propizia per soffermarci su “Vajont. Quello che conosco perché allora ero un addetto ai lavori, e quello raccontato da altri”, il prezioso libro-documento di Luigi Rivis, stampato dalla tipografia Piave nel giugno del 2018 con Momenti Aics editore, grafica ed impaginazione di Davide Capponi. Rivis, che nell’agosto 2012 aveva realizzato con notevole, meritato successo “La storia idraulica del ‘Grande Vajont’ rievocata da un addetto ai lavori che allora c’era” (alla terza ristampa, e tradotto anche in francese ed in inglese), era entrato alla Sade (Società adriatica di elettricità) nel 1951 e la sua prestigiosa carriera lavorativa è proseguita con l’Enel, sempre nel settore dell’impiantistica per la produzione di energia idroelettrica, fino al pensionamento, nel 1997: responsabile degli impianti idroelettrici Piave-Boite-Maè-Vajont e quindi vice direttore del Raggruppamento impianti idroelettrici Cordevole-Medio Piave-Cismon-Brenta, svolgendo incarichi di coordinamento su tematiche specialistiche relative alla generazione di energia elettrica per la direzione centrale della Produzione idroelettrica Enel. Il libro è articolato in quattro parti ed un’appendice (“Quella notte a Soverzene – Perché parlarne”). La prima: “Il mio rapporto con il Vajont” (Che cosa facevo all’Enel il 9 ottobre 1963; Perché ho cominciato a parlare e scrivere del Vajont solo dopo 47 anni; Come era gestito e controllato l’impianto del Vajont); la seconda: “Alcune cose non dette o poco conosciute” (Perché il bacino del Vajont è diventato il “Grande Vajont”; Che cosa ha insegnato la caduta della frana di Pontesei in Val Zoldana; Come era controllata la frana); la terza: “Varie puntualizzazioni su alcuni libri, filmati e convegni” (Che cosa sapeva della frana il personale del Servizio idroelettrico di Soverzene; Che cosa sapeva della frana il personale del Servizio costruzioni idrauliche del Vajont; Quale sensazione di pericolo aveva il personale dell’Enel e dell’impresa Monti al Vajont; Quali effetti erano ritenuti prevedibili con la caduta della frana; Si doveva sgomberare? E se sì, quali paesi? E quando?; Analisi delle telefonate della sera del 9 ottobre; Il “Canale ostruito” verso Soverzene; Perché è stata chiusa la strada Dogna-diga Vajont solo poco prima della tragedia; Perché dal Vajont hanno telefonato alla Mec Marmi di Longarone; Chi doveva trovarsi nella sala controllo del Vajont la sera del 9 ottobre; Compatibilmente con…; A proposito del collaudo della diga; A proposito del film “Vajont”; Quella sera a Ponte nelle Alpi); la quarta: “Altre puntualizzazioni (I timori di ulteriori franamenti e la diaspora degli abitanti della valle; Trasferimento dell’ingegnere capo del Genio Civile; Ancora a proposito della frana di Pontesei; I morti nella costruzione degli impianti Piave, Boite-Maè-Vajont; Alcune considerazioni). Diciamo la verità: ogni parte del libro di Rivis (il quale nella presentazione giustamente rammenta che: “Dopo un lungo iter giudiziario, la Corte suprema di Cassazione ha ritenuto responsabili del disastro Alberico Biadene, direttore del Servizio costruzioni idrauliche della Sade e Francesco Sensidoni, ispettore generale del Genio civile presso il Consiglio superiore dei Lavori pubblici, e li ha condannati ‘per il reato di disastro colposo e di omicidio colposo plurimo; la sentenza venne emessa il 25 marzo 1971 quando mancavano solo 14 giorni alla prescrizione del reato) andrebbe anche qui proposta integralmente considerata l’autorevolezza di chi l’ha messa nero su bianco e per la drammaticità dell’evento, che ha avuto risonanza mondiale anche in virtù dell’inchiesta penale che ne conseguì, portata avanti prima dal procuratore della Repubblica Arcangelo Mandarino e poi dal giovane giudice istruttore dell’epoca, Mario Fabbri, alla cui memoria proprio sabato scorso 2 ottobre il Comune di Longarone guidato da Roberto Padrin che è anche presidente dell’Amministrazione provinciale bellunese, ha intitolato la “Scalinata della giustizia” che sale dalla via Protti ed arriva nel centro del paese stagliandosi in faccia proprio alla diga del Vajont; erano presenti fra gli altri la figlia del magistrato, Antonella, che ha sottolineato come la lettura attenta del passato serviva a Fabbri per progettare il futuro; la vedova Maria Luisa, i figli Andrea ed Antonio; il vicario parrocchiale don Rinaldo Ottone che ha impartito la benedizione alla targa-ricordo; il ministro Federico D’Incà; il deputato Roger De Menech; l’ex sindaco Gioacchino Bratti che a Fabbri aveva conferito la cittadinanza onoraria; Prefetto, Questore, numerosi sindaci e consiglieri provinciali; i comandanti delle forze dell’ordine, una qualificata delegazione della Protezione civile e semplici cittadini). In questa occasione ci accontentiamo, si fa per dire, di sintetizzare due dei tanti capitoli in cui si articola il volume: “Perché ho cominciato parlare e a scrivere del Vajont solo dopo 47 anni” e “Come era gestito e controllato l’impianto del Vajont”. Rivis rammenta che raramente parlava delle problematiche del Vajont con altre persone: “Nell’oblio cercavo di dimenticare il passato, anche perché mi assaliva la sindrome del sopravvissuto, cosicché dividevo e divido la mia vita in due periodi: il prima e il dopo Vajont”. Ancora: “… alla fine degli anni ’90, l’attore Mario Paolini, con il suo monologo ‘Racconti del Vajont’ trasmesso in diretta televisiva nel 1997 e poi il regista Renzo Martinelli, con il suo film ‘Vajont’ del 2001, hanno contribuito ad accrescere l’interesse dell’opinione pubblica. Da allora sono aumentate le uscite, prima sulla stampa e poi sui libri, su documentari e nelle interviste, delle ricostruzioni di alcuni fatti che meritano di essere puntualizzati… Mi è parso necessario intervenire dove ritenevo e ritengo ancora opportuno, per correggere delle affermazioni non veritiere le quali, purtroppo, hanno avuto anche un seguito che non ha reso testimonianza alla verità… Intervengo doverosamente anche a ricordo dei 60 lavoratori che hanno perso la vita quella notte al Vajont dove alcuni erano stati comandanti in servizio. Essi, ora, vengono dimenticato dalla maggior parte di coloro che, a modo loro, raccontano il Vajont”. Quanto al capitolo su gestione e controllo dell’impianto del Vajont, Rivis spiega che all’epoca erano affidati a due Servizi che facevano riferimento alla direzione centrale di Venezia: Sci, Servizio costruzioni idrauliche, e Si, Servizio idroelettrico, “che avevano compiti e responsabilità ben chiare e distinte, disponevano di proprie strutture operative con proprio personale. Compito del primo era la costruzione di varie parti degli impianti idroelettrici: dighe, gallerie, strutture delle centrali le quali, una volta terminate e collaudate, passavano al SI a cui era demandata la loro gestione. Direttore era l’ing. Alberico Biadene, dopo la morte il 30 ottobre 1961 dell’ing. Carlo Semenza il quale era stato tra l’altro, anche il progettista della diga del Vajont. Biadene aveva un rapporto diretto con il proprio personale al Vajont, allora composto dal direttore ing. Mario Pancini e da altri validi collaboratori, tutti geometri o periti edili. La catena di controllo del Si, invece, era più allungata; l’ultimo anello era rappresentato dal Reparto di Soverzene, che aveva come responsabile il perito industriale Armando Bertotti. Ancora Luigi Rivis: “L’entità delle variazioni del livello dell’acqua nel lago del Vajont era di esclusiva competenza della direzione del Sci e quindi di Biadene. Le decisioni prese erano comunicate con fonogramma alla direzione del Reparto di Soverzene perché provvedesse ad attuarle. Le manovre da compiere al Vajont erano relativamente semplici sia che la quota dovesse rimanere stabile sia che dovesse variare in salita o in discesa in quanto si trattava di controllare e-o regolare le portate in entrata ed in uscita dal lago”. L’autore spiega poi che le portate in entrata erano quella naturale del suo bacino imbrifero di 2 metri cubi al secondo, quelle regolabili provenienti ai laghi di Pieve e di Valle di Cadore e quella dallo scarico della centrale di Gardona alimentata dai laghi di Vodo e Pontesei; era inoltre previsto che nel Vajont sarebbe entrata dell’acqua anche dal contiguo bacino imbrifero del Cellina. La portata in uscita era regolabile e veniva immessa nella centrale del Colomber e nella paratoia “posizione 23” a sezione rettangolare. Si poteva inoltre far uscire l’acqua dal lago aprendo gli scarichi della diga e immettendola a valle nell’alveo del Vajont. E’ la soluzione, quest’ultima – ricorda Rivis – che venne presa in esame la sera del 9 ottobre. Gi scarichi furono utilizzati solo durante la costruzione della diga, per far defluire la portata naturale del Vajont. Terminata la costruzione non vennero più aperti, anche perché non se ne manifestò la necessità in quanto l’acqua veniva mandata a Soverzene, dove era utilizzata per produrre energia elettrica. E così conclude il capitolo: “Per la giornata del 9 ottobre la direzione Sci aveva previsto uno svaso del lago di 1,20 metri corrispondente ad un decremento orario di 5 centimetri; poiché alle ore 0,00 la quota era a 701,70 metri slm, per la mezzanotte dello stesso giorno doveva scendere fino a 700,50. Per ottemperare alla disposizione del Sci, da Soverzene venne programmata la movimentazione delle acque nelle varie gallerie. La gestione delle paratoie era stata di competenza Sci fino al giugno del 1962, quando lo scarico della centrale di Gardona venne immesso nel Vajont. Da allora, il Reparto di Soverzene prese in consegna la gestione delle paratoie e dal novembre successivo, con l’entrata in servizio della centrale di Colomber, anche la restante parte elettromeccanica del Vajont”.
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “Vajont. Quello che conosco e quello raccontato da altri”; fotoreporter Giuseppe Zanfron): l’autore, Luigi Rivis; la copertina del volume; il “progetto dighe”; l’insieme di dighe, gallerie e centrali che costituivano l’impianto idroelettrico Piave-Boite-Maè-Vajont nel mosaico del 1955 posto all’ingresso della centrale di Soverzene; schema dell’impianto del Vajont; due vedute da valle della diga del Vajont; primavera del 1963: uffici, abitazioni alloggiamenti del personale; la zona della frana; strutture in cemento armato realizzate nel 1961-62; così dopo la tragica notte del 9 ottobre 1963.