di Renato Bona
Nel libro “Piccole grandi storie di emigranti”, opera del 1991di tre cari amici: Ivano Pocchiesa, Mario Fornaro ed Aduo Vio, che lo hanno realizzato con Media diffusion editrice e l’agenzia Polaris, foto di Bepi Zanfron, Dario Fontanive, Renato Idi, Aldo Pellencin e degli autori, una delle storie che ci ha decisamente incuriositi è quella illustrata nel capitolo “I Squarador. 1880!” che si apre con una foto di gruppo così illustrata: “Degli otto operai se ne riconoscono con certezza 3; il secondo da sinistra, Pietro Zalivani, classe 1849, di Iral, che impugna la ‘manera’; alla propria destra è affiancato da due figli: Dante Zalivani, nato nel 1888 e caduto nella guerra 1915-18, vicino a lui ecco il fratello Secondo Zalivani (padre di Pia Zalivani, che conserva questa fotografia), classe 1893, che qui era un bambino di 13 anni, e non impugna arnesi, perché era aggregato alla compagnia come cuoco e ‘garzone’”.
Vediamo intanto di capire chi erano “I Squarador”. Si tratta dei boscaioli che sagomavano la pianta con una apposita scure detta “la manera da squarà”; e con altri attrezzi del mestiere chiamati “al zapin”, “la squarà”, “al cavalet”, “al zapòl”, la “stana da squarà”. E ora immergiamoci nella storia di “De Rocco di Villa”. Ecco cosa si può leggere in proposito: “I suoi compagni lo videro partire da solo, dal bosco, perché voleva andare ad imbucare una lettera alla famiglia. Non volle sentire ragioni… Non tornò più e qualcuno formulò l’ipotesi che fosse stato sbranato dai lupi o dagli orsi. Di lui si ricorda solo il cognome, Ecco perché quando si dice “posto da lupi” si ignora quanto fosse veritiera tale affermazione per gli “squarador” sui monti Carpazi in Romania”. Infatti, dal 1880 e fino al 1920 almeno, gli zoldani ma anche i longaronesi ed altri bellunesi che non avevano paura dei calli sulle mani, si specializzavano in un mestiere rude e duro: sagomare le piante nei boschi, in dialetto: “squarà taie co’ la manera da squarador”. Considerato che questi boscaioli lavoravano a regola d’arte, le imprese li ricercavano assumendoli per 3-4 mesi e De Rocco era uno di quelli che preparavano le piante in un bosco della Romania. Poi c’era Pietro, nono figlio di una tal signora Zalivani, che restò tre mesi con l’unica compagnia di un “gàaf de taie da squarà”, mezzo quintale di farina per fare la polenta chiamata “mamaliga” in Romania, e un litro di grappa di prugne, in romeno “tuica” e nient’altro. Guido Cercenà ricorda che il lavoro si svolgeva nei boschi più sperduti, i pesi erano lontani… di sera si chiudevano nelle baracche e ritiravano anche la scala per evitare l’assalto di lupi affamati. Il sabato andavano nei paesi facendosi strada con una torcia accesa per tenere i lupi a distanza. A detta di Amedeo Soccol, il più bravo “squarador” di Zoldo fu “el Giàn Socòl”, Giovanni Soccol,che “era arrivato a capo di un centinaio di piante in un giorno”.
Gli autori non hanno omesso di dire che il mestiere che oggi è testimoniato da pochi vivi (discendenti di quei boscaioli sono stati identificati fra l’altro in numerose comunità romene delle zone di Brezoi e Petrosani e altre) e da numerose fotografie, “si esaurì dopo la seconda guerra mondiale”. Da ultimo viene sottolineato che Guido De Rocco di Dont ha fornito i nomi di numerosi “squarador”: Zuàn Bric, Giovanni Santin, Angelo e Augusto Cercenà, Domenico De Marco di Pianaz, Andrea Rizzardini, Tòne Bèl, al Fùma de Zopè, al Nanti (Fioravante Toldo).
NELLE FOTO (riproduzioni dal libro “Piccole grandi storie di emigranti): degli otto valenti “squarador” tre erano sicuramente zoldani di Iral; “parenti stretti” erano gli zattieri, pure alle prese con i tronchi lungo i fiumi di mezza Europa; Gioacchino Zanin, 1918: lo stare lungamente a contatto con ambienti e culture tanto diverse dalla propria faceva acquisire anche il piacere di identificarsi, almeno esteriormente, negli atteggiamenti di vita locale; longaronesi in costume romeno da contadino (cioban) ritratti in Romania nel 1919.